LA NETTA SEPARAZIONE TRA L’UOMO E LE ALTRE SPECIE rappresenta il presupposto fondativi della nostra percezione identitaria, un confine avvertito come pericoloso, ambiguo, derivale e tuttavia carico di significati e fonte di problematicità. Dall’animale “aperto al mondo” dell’ottava Elegia duinese di Rilke all’animale “povero di mondo” in Heidegger, vale a dire da una visione che esalta la totale libertà di immersione e panopticon del non umano a una che viceversa gli nega qualunque forma di possibilità disvelativa, l’eterospecifico viene letto come nettamente distinto dall’uomo. Lo stereotipo dell’animale quale essenzialmente diverso, estraneo da qualsiasi contiguità, addirittura speculare nelle qualità, è nella cultura occidentale il caposaldo che sostiene una visione solipsistica della nostra specie e basa la dignità dell’uomo sull’unicità e lontananza e su un suo presunto carattere speciale. Trasformare questa cesura in una liminarietà valicabile nei due sensi, azzerare il distanziamento riconoscendo parentele e ammettendo prestiti dal non umano, significa nel pensiero comune porre una pesante ipoteca sulla dignità umana.
Il confine non è interpretato come interfaccia utile per rinvenire elementi condivisivi o per dar luogo a commerci, ma come frontiera diuturnamente pattugliata, valida in quanto discreta e antinomica, dove qualunque forma di congiunzione e contaminazione è rigettata. In questa prospettiva se il confine diventasse soglia, riconoscendo dei predicati di continuità e dei debiti di interscambio tra i due generi, ciò comporterebbe inevitabilmente la perdita dei caratteri stessi di umanità. Il significato esclusivamente collativo, non ibridativo e tanto meno plurale dell’animalità, crea un valore autarchico e puro dell’umano, che relega la costruzione identitaria a un esercizio di emancipazione dall’animale ossia di epurazione proprio dei caratteri di continuità e appartenenza. Enfatizzando le differenze con l’alterità animale e parallelamente negligendo la molteplicità del non umano, l’eterospecifico si fa categoria oppositiva e soprattutto cifra regressiva.
Il farsi animale non viene assunto come sciamanica acquisizione di caratteri nuovi e allargamento dell’orizzonte ontologico dell’uomo bensì come regressione in una dimensione aurorale e tellurica. La tradizione umanistica esemplifica molto bene questa proposta quando vede l’uomo come entità in divenire, senza rango ossia essenzialmente virtuale, a mezza strada tra i bruti e gli angeli, quindi eroica e autopoietica nel suo posizionarsi nella storia.
La visione disgiuntiva ha radici nell’essenzialismo platonico, nella gerarchizzazione degli enti in Aristotele, nella tradizione giudaico-cristiana. L’interpretazione categoriale dell’eterospecifico, che pretenderebbe di riconoscere più qualità condivise tra uno scimpanzé e una mosca, rispetto a quelle presenti tra l’uomo e le altre antropomorfe, percorre gran parte della tradizione naturalistica, se si fanno le eccezioni di Linneo e di Darwin.
Leggere oggi questi tentativi di costruire un ordine naturale basato sulle differenza e sulle rigide distinzioni è utile per comprendere come la cultura occidentale abbia difeso a oltranza, spesso modificando il valore semantico delle differenze o appellandosi a nuovi operatori di discrezione, l’invalicabilità del confine. Per questo non possiamo non concordare con Ernst Mayr quando legge la rivoluzione darwiniana non solo in termini scientifici e naturalistici bensì come una vera e propria cesura nella tradizione filosofica occidentale.
Ma esistono diverse strade per addomesticare il portato scandaloso del darwinismo, una di queste è ammettere l’origine condivisa ma altresì affermare che l’antropopoiesi non sia stata altro che un’emancipazione dall’animalità. Dopo Darwin il carattere disgiuntivo viene declinato nel senso di ancestrale, per cui il nonno babbuino che alberga nei fondali del nostro essere può emergere e far cadere l’individuo nella bestialità. Su questa falsariga leggiamo buona parte della produzione freudiana, la fisiognomica di Cesare Lombroso, alcuni leitmotiv della letteratura a cavallo tra il XIX e il XX secolo. L’evoluzionismo darwiniano, ancorché mal digerito, subisce così degli slittamenti di significato che vanno a tradire alla base il portato euristico della teoria.
L’antropocentrismo può leggere la filogenesi solo come progressione verso l’uomo e non come specializzazione, l’evoluzione diventa perciò un processo finalizzato a operare quel salto quantico dell’ominizzazione che risica il sostrato biologico condivisivo, riagganciandosi così a quella tradizione contro cui si era battuto Darwin. Questa lettura rafforza la lettura umanistica che vede l’antropo-poiesi come evento disgiuntivo ed epurativo, realizzato in modo autarchico e in virtù della chiusura definitiva della soglia con l’eterospecifico.
A partire dagli anni ’80 una nuova interpretazione dell’identità umana è stata proposta dalla zooantropologia che di fatto, applicando l’operatore ermeneutico della valutazione del processo identitario quale dialettica tra retaggio e referenze, propone una modificazione a 360 gradi del significato dell’alterità animale che da cifra regressiva viene interpretata come entità referenziale.
Secondo la zooan tropologia la cultura è un frutto ibrido e proprio per questo è possibile affermare che lo spazio antropo-poietico non discende direttamente dalle caratteristiche filogenetiche dell’uomo. La visione autarchica, sia espressa dal concetto di “natura pregnante” o di “natura carente”, lega a doppio filo il processo antropo-poietico alla matrice filogenetica, vuoi per espressione (sociobiologi) vuoi per complementazione (antropologia gehleniana).
La dialettica con l’eterospecifico rende tale referenza co-fattoriale e quindi trasforma il processo antropopoietico in un evento aperto e indeterminato, cosicché nessuna ricognizione sulle caratteristiche filogenetiche dell’uomo può da sola giustificare i predicati umani. Nell’impostazione zooantropologica si viene a creare un piano mimetico, una sorta di processo di concepimento, tra uomo ed eterospecifico capace di far germogliare nuovi predicati. Secondo la zooantropologia l’identità umana non può essere compresa prescindendo dalla dialettica con l’eterospecifico, cosicché l’umano si realizza allorché l’uomo assume (ovviamente in modo referenziale) contributi dall’alterità animale. Secondo la zooantropologia gli esiti identitari (ciò che l’uomo invoca come caratteri distintivi) non appartengono all’uomo bensì emergono dall’ibridazione con l’eterospecifico, ovvero mescolando il retaggio dell’uomo con il non umano.
In altre parole, l’uomo realizza l’umano assumendo il non umano e non epurando quest’ultimo o prendendo le distanze attraverso una disgiunzione. L’alterità animale diviene pertanto una sorta di entità coniugativa e decentrativa che ci consente di osare oltre il consueto e di sperimentare nuovi modelli esistenziali attraverso passaggi graduali condivisibili: l’ontica dell’eterospecifico condensa infatti somiglianza (e quindi possibilità di immedesimazione e tranquillizzazione proiettiva) e diversità (e quindi possibilità di decentramento) e in tal senso funge come una “soglia” capace di antropodecentrare. La zooantropologia fa propria la concezione dialogica dell’ontopoiesi ritenendo ogni identità congiunta, ma altresì dipendente e perfusa, rispetto alle alterità.
Secondo la zooantropologia la cultura umana non solo è differente per grado rispetto a tutte le altre manifestazioni animali, ma presenta delle caratteristiche che potremmo definire come “emergenti”, cosicché non è scorretto né frutto di antropocentrismo individuare nella cultura umana una sorta di peculiarità ontologica. Tuttavia secondo l’approccio zooantropologico questa peculiarità nasce dal processo ibridativi con l’eterospecifico, è cioè il frutto di un allargamento dell’umano attraverso l’inclusione referenziale del non umano e non della sua epurazione o dell’emancipazione dalla condizione animale.
Roberto Marchesini
D’ARS year 49/nr 197/spring 2009