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La retrospettiva di Mona Hatoum al Centre Pompidou

Mona Hatoum - Hot Spot © Courtesy of the Artist © Photo Courtesy of the Artist and Courtesy Galerie
Mona Hatoum – Hot Spot © Courtesy of the Artist © Photo Courtesy of the Artist and Courtesy Galerie

Con una scelta che conferma la direzione di presentare mostre di un impatto rilevante anche durante la “un tempo trascurata” stagione estiva, il Centre Pompidou ha aperto lo scorso 24 giugno una grande mostra retrospettiva consacrata a Mona Hatoum. Attraverso un centinaio di lavori, il percorso permette di (ri)scoprire le differenti tappe dell’artista che, nata in Libano da genitori palestinesi, in seguito allo scoppio della guerra civile nei primi anni ’70 si è trasferita nel Regno Unito.

All’ingresso della mostra la donna che in un video ripete in modo compulsivo “So much I want to say” (“Voglio dire così tante cose”) diventa una sorta di manifesto programmatico di una poetica proteiforme. Se si aggiunge che due mani cercano di impedirle di parlare, l’impegno contro ogni forma di censura assume un impatto dirompente.

So Much I Want to Say
Mona Hatoum, “So Much I Want to Say” © Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, Paris. AM 2009-56 © Photo: Centre Pompidou

La prima fase dei lavori della Hatoum si caratterizza per l’utilizzo del video quale alleato per documentare performance che, di volta in volta, sono imperniate sulla condizione della donna, sul senso di sradicamento, sulla violenza. Protagonista – come nelle opere di Marina Abramovic o Gina Pane – il corpo che si fa espressione della perdita di identità, della sofferenza, del bisogno di affermazione, del senso di rivolta rispetto alle ingiustizie politiche e sociali.

Mona Hatoum - Grater Divide © Courtesy of the artist © Photo Courtesy White Cube [Iain Dickens]
Mona Hatoum – Grater Divide © Courtesy of the artist © Photo Courtesy White Cube [Iain Dickens]


Emblematico il video Under siege (“Sotto assedio”, 1982): per rendere omaggio e testimonianza delle sofferenze di coloro per i quali la vita è una lotta contro i conflitti, l’artista si dibatte in un contenitore trasparente riempito di fango mentre in sottofondo bollettini di guerra si alternano a canzoni rivoluzionarie.
A partire dalla fine degli anni ’80, l’artista utilizza oggetti domestici (mobili, utensili), elementi corporali quali unghie e capelli, materiali industriali (fili elettrici e spinati), per realizzare installazioni e sculture che esprimono e provocano nel contempo disagio nello spettatore.

Mona Hatoum - Light Sentence © Centre Pompidou, Musée National d'Art Moderne, AM 2009-56 © Photo Ce
Mona Hatoum – Light Sentence © Centre Pompidou, Musée National d’Art Moderne, AM 2009-56 © Photo Ce

Il campo di indagine si è allargato alla fuorviante quotidianità di un mondo malato dove tutto è instabile a cominciare dalle frontiere tra le differenti nazioni – da qui le opere sulle mappature – e nel quale, ingrandendo un oggetto banale quale un colapasta o una grattugia, è possibile cogliere come ciò che appartiene alla cosiddetta normalità in realtà nasconda un velato potenziale di pericolo.

Mona Hatoum - Impenetrable © Courtesy of the Artist © Photo Courtesy Mataf: Arab Museum of Modern Art [photo by Markus Elblaus]
Mona Hatoum – Impenetrable © Courtesy of the Artist © Photo Courtesy Mataf: Arab Museum of Modern Art [photo by Markus Elblaus]



Sintomatica di questa inquietudine è Impenetrable, l’omaggio/reinterpretazione della serie Penetrable dell’artista cinetico venezuelano Jesús Rafael Soto: scomparsa la componente ludica dell’invito a immergersi nell’opera, il filo spinato della scultura sembra rimuovere il velo schopenhaueriano di Maya per rivelare una società in cui le barriere prevalgono sul senso di appartenenza a una sola, globale umanità.

Danilo JON SCOTTA

Mona Hatoum
Fino al 28 settembre
Galerie 1 – Centre Pompidou, Paris

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