Se apro il mio corpo affinché voi possiate guardarci il vostro sangue,
è per amore vostro: l’altro. Gina Pane
Dal processo di selezione ed etichettatura operato dalla storia dell’arte, Gina Pane è uscita come “quella tipa che si incideva la pelle con una lametta e si conficcava spine di rose in un braccio”. Gina Pane la performer. Gina Pane l’eroina della body art estrema anni Settanta. Eppure, come ha sottolineato Gillo Dorfles: “Il suo pungersi le vene con le spine d’una rosa, macchiando di sangue il candido pigiama, era tale da creare una situazione insieme teatrale e cromatica di indubbia efficacia. Il che non avviene nelle operazioni di una Orlan… o nelle sospensioni di Sterlac … [attuate] senza alcuna giustificazione estetica, ma solo con una motivazione psicopatologica”1. Gina – mi permetto di chiamarla col nome di battesimo per questioni di sonorità – aveva una formazione classica. Si era diplomata all’École des Beaux-Arts di Parigi – poco distante dal Louvre – e durante gli anni d’accademia aveva frequentato ambienti vicini agli Ateliers d’art sacré, quei laboratori d’arte sacra fondati da George Desvallières e Maurice Denis che tra le due guerre avevano proposto nuove vie per la decorazione delle chiese. Conosceva quindi bene la pittura d’epoca moderna e l’iconografia cristiana, dominata da crocifissioni, martìri e scene della Passione; da corpi nudi, feriti e insanguinati, esibiti come simboli d’amore e di sacrificio. Ma amava anche lo sperimentalismo delle avanguardie: l’arte concettuale, la scultura minimalista e, ovviamente, la neonata art corporel, che faceva del corpo il soggetto e l’oggetto della propria pratica, sottoponendolo a prove estenuanti.
Per tutta la vita Gina si è dedicata alla ricerca di una formula che potesse unire queste esperienze: pittura, volume e azione; sacro e profano; il sé e l’altro. Lo si nota già nelle tele e nelle sculture che realizza appena uscita dall’accademia: dipinti geometrici dalle tinte brillanti e volumi astratti che chiama Structures affirmées (Strutture affermate), le cui forme sinuose trasmettono un senso di movimento, tradendo la presenza di un corpo che già c’è, sebbene ancora invisibile. La figura fa la sua comparsa nel ’68, anno di rivoluzioni anche per Gina, che lascia lo studio con l’amica fotografa Françoise Masson e si fa ritrarre mentre sposta un mucchio di pietre dall’ombra al sole. Sono le prime prove d’azione. Prevale ancora l’istinto da pittrice, ma con un titolo come Situation idéale: terre – artiste – ciel, dove la silhouette è un ago tra la striscia marrone della terra e quella blu del cielo, Gina dichiara senza mezzi termini di trovarsi perfettamente a suo agio nel nuovo ruolo di artista-modella. I gesti compiuti sono condivisi per ora solo a posteriori col pubblico attraverso il medium fotografico, che da questo momento assume un ruolo centrale e porta alla nascita di quella che Gina chiama constat photographique: un collage di immagini che documentano i diversi momenti dell’azione, montati in sequenza come in uno storyboard e accompagnati da disegni preparatori, appunti e istruzioni di scena. “Il corpo, che è al tempo stesso progetto/materiale/esecutore di una pratica artistica, trova il suo supporto logico nell’immagine, attraverso il mezzo fotografico”2. L’adozione della constat apre il decennio delle actions di nome e di fatto. Davanti a un pubblico attonito, ora invitato ufficialmente ad assistere alle scene, Gina mostra le sue doti drammatiche in scene dall’esplicito carattere rituale: si ferisce con aculei e rasoi (Azione sentimentale, 1973); si arrampica per mezz’ora a mani e piedi nudi su una grata d’acciaio dai bordi taglienti (Action Escalade non-anesthésiée, 1971); si sdraia su una panca di metallo arroventata dal fuoco delle candele (Action Autoportrait(s): mise en condition / contraction / rejet, 1973). Impossibile non pensare agli attributi dei santi: la graticola di Lorenzo, la corona di spine di Gesù, i chiodi delle crocifissioni. Tant’è che gli oggetti che usa nelle performance li espone accanto ai montaggi fotografici come fossero reliquie – le scene del supplizio e gli strumenti della passione. Gina in effetti propone una rivisitazione del martirio cristiano. Come i santi si immedesimavano nella figura di Cristo e ne rivivevano la Via Crucis sacrificandosi per il bene del prossimo, così Gina offre simbolicamente il suo corpo ferito a coloro che la osservano, nel tentativo di condividere il proprio dolore con quello altrui. Le constatazioni sono opere straordinarie animate da una perfetta mescolanza di tecniche e linguaggi diversi. Nessun esponente della body art ha mai mostrato un’attenzione così viva alla messa in mostra delle proprie azioni. Ma Gina era una voce fuori dal coro. Lei, la protagonista assoluta del movimento, non si è nemmeno mai mostrata nuda – condizione al contrario abituale di molti suoi coetanei – e ha sempre mantenuto un eccezionale autocontrollo, fermandosi prima che il dolore avesse la meglio o che il pubblico intervenisse, evitando inutili esibizionismi.
Le actions vanno avanti fino al 1979, poi si fermano per lasciare spazio a nuove sperimentazioni. Come la constatazione era la memoria di un’azione, le Partitions (Partizioni, ma anche Partiture) sono un ricordo di ciò che è stato, installazioni composte da fotografie inutilizzate e oggetti simbolici, che lo spettatore è chiamato a ricomporre per dar loro un significato. “Il corpo non c’è più. C’è l’evocazione del corpo”3. E ci sono i santi: Francesco, Sebastiano, Giorgio, Giovanni, Pietro, Lorenzo, cui rende l’ultimo omaggio in quei delicati capolavori che sono le Icônes, sacre sindoni d’ottone, rame e vetro solcate da un’impronta appena percettibile della vita terrena.
Gina Pane (1939-1990). “È per amore vostro: l’altro”
Fino all’8 luglio
Mart, Rovereto
Stefano Ferrari
D’ARS year 52/nr 210/summer 2012
[1] Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte di oggi, Feltrinelli, 2001, p. 184.
[2] Gina Pane, Lettre à un(e) inconnu(e), ENSBA, 2004.
[3] Lea Vergine, Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio, Skira, 2000, p. 271.