Gli aspetti più drammatici della realtà contemporanea influenzano la moda e le sue proposte: operazione strumentale o elaborazione di avvenimenti a cui nessuno può restare indifferente?
Al termine delle presentazioni delle collezioni Haute Couture, si è visto come la moda sia sempre di più in rapporto costante con l’attualità, anche se questo obbliga a confrontarsi con temi drammatici e difficili da affrontare dal punto di vista etico. Quando ci si avvicina infatti a tragedie collettive – guerre, migrazioni di massa – con servizi fotografici o con l’ispirazione per collezioni e sfilate, le polemiche sono quasi inevitabili, per quanto meno frequenti che in passato.
E’ giusto porsi dei limiti quando tutto converge in abiti e accessori il cui fine è soprattutto la vendita? La vendita non è una pratica estranea neppure all’arte, alla quale si riconosce un’ovvia legittimità di espressione, ma gli sconfinamenti messi in scena da chi progetta e produce moda a volte generano perplessità. La questione del potersi permettere di mostrare – letteralmente fra le pieghe degli abiti – anche gli input più scomodi colti nella realtà circostante o nel vissuto dei creatori non è più soltanto formale o risolvibile relegando la moda a contenitore di un “bello” generico. Il discrimine è piuttosto nella sincerità delle ispirazioni e nelle capacità creative dei designer.
A margine degli eventi dedicati alla Haute Couture si è svolta la sfilata del marchio Vetements, in anticipo sul calendario canonico del ready to wear. Di Vetements – e del suo responsabile creativo Demna Gvasalia – si è parlato molto negli ultimi anni per l’iniezione di un’iconografia post sovietica nella moda di tendenza, per l’ispirazione trovata nel vestire quotidiano o da lavoro e per la propensione a una concettualità che ha il tono dell’esperimento socio-antropologico (come nel caso della celebre collaborazione con DHL). La nuova collezione apre ad una sfera in un certo senso più privata, pur nel contesto storico che la definisce, e appare come una gigantesca operazione catartica di un designer la cui infanzia è stata segnata da una guerra cruenta. Demna Gvasalia è georgiano, fuggito con la famiglia da Sukhumi durante la guerra civile che dal 1992 al 1995 ha provocato circa 30.000 morti e una pulizia etnica che ha costretto alla fuga 250.000 georgiani.
Tutto questo è confluito in una collezione nella quale trovano posto le felpe fuori misura dei ragazzini vestiti con capi smessi (a volte con un inquietante foro sul davanti e uno corrispondente sul dietro “Perché sono stato preso di mira”, ha detto Gvasalia), gli stampati a fiori della nonna, le toppe e i patchwork “di necessità”, le t-shirts effetto nudo con le stampe di tatuaggi esibiti dai criminali locali, la pelle nera oversize da dominatori (“She’s war” dice sempre Gvasalia riferendosi a una modella con un trench di pelle e una maschera SM), le giacche sportive con le bandiere, identitarie sì (la bandiera turca in ricordo della famiglia materna) ma anche immagine del più terrificante nazionalismo, e le scritte, gli slogan in georgiano e russo che avranno necessariamente un maggiore impatto nell’Europa orientale: “Dio ci perdoni”.
In questa collezione c’è uno storybord che è un racconto di formazione, dai bombardamenti e dalla vita da profugo in Ukraina alla terapia in analisi che rende possibile questa messa in scena creativa e liberatoria, ma c’è anche una tragedia collettiva che si ripropone in forme diverse sempre più frequentemente, conflitti e violenze che arrivano fino al movimento Everytown for Gun Safety riecheggiante nella t-shirt forata.
L’occhio critico e consapevole di un adulto però non idealizza la patria perduta: la scenografia della sfilata, allestita come il tavolo di un ricevimento di nozze sotto un ponte del Boulevard Périphérique di Parigi (una zona dove migranti e sfollati da tanti conflitti in Africa e Medio Oriente vivono in accampamenti lungo la strada) è un richiamo amaro a quella cerimonia tradizionale che il designer, da poco sposato al proprio partner non avrebbe mai potuto avere. Una nazione tanto fortemente omofoba, la Georgia, da far desistere Gvasalia da farvi ritorno anche oggi, a maggior ragione dopo aver inserito in collezione una maglietta con la scritta “GEORGIA” in gradazione Rainbow.
Guerra e diritti civili letteralmente addosso: insensibilità, pornografia del dolore o un arricchimento per chi compra un capo che è una somma di concetti e stratificazioni identitarie? “Sento che tutti oggi parlano di guerra e rifugiati. E io lo sono, sì, so esattamente cosa significa. È strano. Questo riguarda la mia vita, ma riguarda anche tutto ciò che vedi sulla CNN. “
Nel calendario ufficiale della Haute Couture ha sfilato invece Maison Margiela Artisanal, la collezione che è da sempre il laboratorio creativo del marchio di origine belga ora guidato da John Galliano. In una stagione che ha visto le maison storiche fare ritorno alla tradizione, con Maria Chiuri che per Dior ha abbandonato le t-shirt femministe e Pier Paolo Piccioli impegnato a definire la nuova identità coloristica di Valentino ispirandosi ai maestri del ‘500, quella della Maison Margiela è stata una collezione che ha lasciato il segno mettendo d’accordo tutti, tanto astratta e concettuale quanto ben ancorata alla realtà.
La collezione, intitolata “In the Memory of” si basa sul concetto che un capo possa avere memoria di un altro capo al suo interno, dando vita a un gioco di sovrapposizioni di natura squisitamente sartoriale.
“Volumi. Loro fanno andare avanti la moda. Ecco di cosa si tratta. Sono un sarto, questo è il motivo del perché lavoro così”: il talento di Galliano per la decostruzione e l’assemblaggio non poteva trovare un filo conduttore più adatto, ma lavorando proprio sul tropo tipico del marchio Margiela, il recupero, ha offerto una doppia lettura ad abiti che richiamano pesantemente il bisogno di proteggersi delle popolazioni in viaggio, proteggersi usando quanto a disposizione e ammassando su di sé strati di memorie oltre che di tessuto.
In uno spazio espositivo allestito dall’architetto Anne Holtrop con pannelli imbottiti a delimitare un precario spazio abitativo, Galliano ha mischiato tessuti pregiati e scampoli da vecchi abiti da lavoro, bretelle in plastica lucida a chiudere giacche in seta cinese e scarti di produzione. Non ultimi i teli trasparenti, tentativo istintivo quanto fragile di proteggersi dalle intemperie, o il cuscino assicurato alle spalle con le cinghie di cuoio, come i telefoni e i tablet appesi al corpo.
Galliano ha realizzato uno show potentissimo sul nomadismo reale e culturale, collegando influenze multiple filtrate dalla tecnica sartoriale a sollecitazioni fornite dalla drammatica cronaca quotidiana. Certamente si tratta di un progetto visionario legato alla capacità di sperimentare permessa alla Haute Couture e alla concezione immaginifica della moda dei creatori di scuola inglese, un progetto molto diverso dal crudo realismo est europeo di Demna Gvasalia, ma le motivazioni e le issues sono le stesse, quelle di un mondo che non si può chiudere fuori dalla porta di un atelier.
Claudia Vanti