La lingua di Mauro Corona è scarna, ingrata, strettamente legata al silenzio; le sue sono parabole della necessità, già dal primo libro di racconti, Il volo della martora: «Crescendo così a dosi di brutalità, veniva alterandosi nel codice genetico l’istinto buono di convivere con la natura. Ogni pratica malvagia diventava, dopo un certo rodaggio, cosa normale: da fare e basta». Il contatto con la natura in cui viviamo esprime il problema eterno che è alla base della civiltà occidentale, ossia il rapporto tra soggetto (“Io”) e oggetto (“natura”). Tale dicotomia, ovviamente, non si trova in questi termini nei testi di Corona, anche laddove i poli sembrano definirsi, ad una prima lettura. L’autore utilizza i segni più semplici dell’italiano quasi dimenticando io e natura: la lingua passa attraverso le piante, le rocce e gli animali, in un rapporto ancestrale con la montagna e l’asprezza che porta con sé, attraverso la fatica di uomini e donne che non smarriscono l’immenso amore per gli ingrati luoghi natii. Ci si trova immessi nel divenire naturale. Ma certamente non è solo questo.
La storia degli scritti di Corona subisce una svolta prettamente politica con l’ultimo libro, pubblicato negli ultimi mesi del 2010 e intitolato La fine del mondo storto. Un testo che non vuole essere letterario né originale, ma che vuol dar da pensare senza troppa astrazione e senza armi seducenti. Quando Corona si autodefinisce raccontatore – notare bene, non letterato – è assolutamente sincero: scrive in modo spontaneo, perché desidera farlo, per vendere, e anche per vanità, come tutti gli scrittori. In molti lo hanno accusato di essere un montanaro solitario con molta voglia di apparire, troppo attento alle finanze per criticare il mondo tecnologico, consumistico e mediatico. Come se la critica non comportasse per definizione il rischio di essere risucchiata nel meccanismo di partecipazione al sistema. Ma è un rischio che bisogna correre, altrimenti non c’è critica.
Con l’ultimo lavoro Corona cerca di uscire dalla mistica della montagna per affrontare il divenire della società umana in senso più largo, varcando la soglia delle città. Questa apertura non crea però una diversificazione dei temi, bensì un ritorno sugli stessi da un punto di vista più ampio. La fine del mondo storto è semplicemente la storia di una civiltà che in pochissimo tempo si scopre senza combustibili, senza elettricità, senza gas, senza risorse tecnologiche. È inverno e le estreme difficoltà della sopravvivenza spingono i pochi uomini rimasti a bruciare ogni cosa per scaldarsi, anche gli oggetti fino a poco tempo prima considerati sacri o intoccabili: libri, tele, opere d’arte. In preda alla fame gli uomini arrivano alla necrofagia. Dopo non molto tempo i superstiti capiscono che conviene collaborare per restare vivi. Conviene appunto, fino a che gli uomini, dopo aver superato un terribile inverno ed aver appreso da contadini, pastori e uomini di montagna le tecniche per ottenere dalla terra (come dagli animali) il necessario per sopravvivere, finiscono per creare piccoli minieserciti e gruppi di potere, i quali riaccenderanno la fiamma della prevaricazione, nonostante l’esperienza della morte vissuta nei mesi precedenti.
Corona non smette mai di ricordare l’importanza della naturalità e della manualità nella vita degli uomini, proprio per ricordare l’importanza di pratiche in grado di dare all’uomo ciò di cui ha bisogno per vivere nella natura. È certamente la vita dell’autore a riflettersi in questi moniti, ma non bisogna ridurre il racconto, così come le conseguenze politiche che esso implica, ad una sorta di ritorno ad un neoprimitivismo in grado di riconoscere il “superfluo” esclusivamente in quella civiltà materiale che vive sulle spalle delle comunitàcontadine e montane, di cui Corona fa parte. Questa naturalità originaria è spesso indicata dall’autore, ma l’aspetto decisivo sembra essere appunto politicamente, quindi socialmente, più ampio. Corona non cova risentimento, esprime il dolore umano senzapiagnucolare. Ricorda quanto la nostra civiltà sia caratterizzata dal consumo: si vive perconsumare, per consumare si lavora, il frutto del lavoro circola in poche mani. Mani altrui.
La vita si riduce a lavoro e consumo (troppo facilmente ci si scorda di Marx, probabilmente perché molti ancora non l’hanno incontrato). L’umanità intera sembra non arrovellarsi troppo su questo punto, forse perché il problema è mal posto. La critica della divisione del lavoro e del profitto non sembra far parte dell’educazione, come se non esistesse altra possibilità rispetto al liberismo sfrenato, punta di diamante del capitalismo. L’unica certezza è quella data dalla natura: le risorse possono finire o possono volerci secoli affinchè si rigenerino. Non si tratta quindi di abolire le costruzioni degli uomini, materiali o ideali, tacciandole come cultura superflua: voler riportare l’uomo ad una supposta identità naturale originaria ci spingerebbe verso il disconoscimento della fantasia e delle possibilità umane, in un naturalismo contadino o montanaro. Finiremmo per elevare la fatica a modello, per fare di necessità virtù. In realtà ciò che preme è la creazione di diversi modi diprocedere, allʼinterno dei quali strutturare nuovi sistemi di vita sulla base delle possibilità garantiteci dalle risorse naturali. Ma bisogna far questo senza ricadere nell’umanismo e nell’esaltazione dell’umiltà.
Il racconto di Corona non è moralistico: all’uomo conviene curare e curarsi dalla natura, non c’è nessun precetto, nessun principio superiore a costringerlo se non la fame, l’autoconservazione; solo dopo viene tutto il resto, “libertà” e “cultura” comprese. Si tratta di mantenere un equilibrio, di comprendere la nostra dipendenza dagli elementi e dai cicli naturali. Questa cruda necessità della convenienza mostra qualcosa di fondamentale: è la vita naturale stessa ad indicarci la via della collaborazione, poiché libertà e costrizione esistono solo nella presenza d’altri. In questa natura.
Mauro Corona, La fine del mondo storto, Mondadori, 2010
Bruno Mariani
D’ARS year 51/nr 206/summer 2011