Questa tua idea fissa la ritengo legittima solo nel senso che anch’io, riguardo alla nostra estraneità, credo nella tua assoluta mancanza di colpa. Ma io sono altrettanto innocente, nel modo più assoluto. (F. Kafka, Lettera al padre)
Arrivano momenti in cui sentiamo la necessità di interrompere una frequentazione perché l’allontanamento appare salutare; la sospensione, meditata che sia, giunge netta, sul momento irreversibile, come gli imprevisti – più o meno gravi – del viaggio in treno in cui si radica Julieta, il film di Pedro Almodóvar liberamente tratto da tre racconti di Runaway: Stories di Alice Munro.
Candidato alla Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, Julieta ci consegna un Almodóvar canonizzato su di sé, estetizzante e sempre più attento alla geometria delle riprese, al frazionamento dei colori, a bilanciare il vermiglione con il blu cobalto, ad assicurarsi quel tocco demodé, per esempio con la presenza dell’immancabile carta da parati anni Settanta; eppure, nonostante nei suoi ultimi film si sia affievolito lo slancio post-franchismo di affrancante bizzarria, arriva comunque preziosa la sua vena autoriale più delicata, quella già ammirata in Volver.
(…)
Giordano Bernacchini
D’ARS anno 56/n. 223/estate 2016 (incipit dell’articolo)