Quella al PAC di Milano è la prima – tarda – antologica in Italia sull’opera del canadese Jeff Wall, che ha personalmente scelto le opere da esporre sotto la curatela del nostro Francesco Bonami.
Cuore della mostra sono 20 lightbox – dagli anni Ottanta ai Duemila; più 22 stampe –, l’invenzione con cui l’artista si è guadagnato il suo posto nella storia dell’arte contemporanea. Sono cornici d’alluminio retroilluminate, grandi come quelle usate per le insegne pubblicitarie o piccole come quelle appese negli studi medici per esaminare le radiografie, e che Wall usa come visori per le sue diapositive fuori misura.
Vi sono ritratti oggetti e scorci rubati sulla strada (una vaschetta argentata coi resti di un pasto; una finestra sbarrata; un muro scrostato), ma soprattutto finte istantanee: cioè scene di vita pubblica e privata memorizzate da Wall, rimesse in scena con l’aiuto di attori professionisti e stampate in diapositive che spesso superano i tre metri di lunghezza, brillanti e dettagliatissime. Ecco la variopinta folla davanti a un nightclub; una coppia che cammina per la strada, con lui che fa un provocatorio gestaccio a un passante asiatico; un uomo sdraiato sotto il tavolo della cucina, frustrato dall’insonnia; un addetto alle pulizie che lava la vetrata della Mies van der Rohe Foundation di Barcellona.
Nella sua congenita mania di rintracciare paralleli e filiazioni, la critica – e Wall conferma – ha visto in queste fotografie un’attualizzazione ai giorni nostri dei dipinti di Manet e degli impressionisti – i balli all’aperto; le passeggiate per il corso; i ritratti di persone comuni –, che ha meritato all’artista l’appellativo di “fotografo della vita moderna”, così come a suo tempo Baudelaire aveva chiamato quelli “pittori della vita moderna”. Ci sembra piuttosto che il modello di riferimento siano le immagini patinate delle riviste di moda e della pubblicità e che da ciò derivi una rigidità, nei soggetti come nelle quinte, che poco ha da spartire con la spontaneità e l’autenticità delle pitture di Manet e compagni.
Più interessanti ci sembrano invece le nature morte catturate per la strada, circondate da cicche di sigarette e blister vuoti di medicinali, nelle quali emerge con forza il degrado della società odierna, più che nelle sopraccitate narrazioni. Oppure le visioni tratte da opere letterarie, idea presa forse dal Manet di Nanà, che consentono a Wall di allestire scenografie originali e che, seppure meno frequentate, restano tra le sue immagini più riuscite – si veda After “Spring Snow” by Yukio Mishima, chapter 34 (2000-05), ma soprattutto After “Invisible Man” by Ralph Ellison, the Prologue (1999-2000), purtroppo assente nella mostra milanese. O, ancora, i paesaggi: urbani, piccoli, in bianco e nero; o naturali, grandi, a colori, come la gigantografia due metri per tre di Hillside near Ragusa (2007).
La mostra ha un sito dedicato (http://www.jeffwallmilano.it/), con qualche informazione essenziale sull’artista e una piccola galleria fotografica, ma per chi volesse approfondire la conoscenza dell’opera di Wall si consiglia la pagina interattiva del MoMA realizzata in occasione della retrospettiva del 2007 (http://www.moma.org/interactives/exhibitions/2007/jeffwall/).
Stefano Ferrari
Jeff Wall. Actuality
19 marzo – 9 giugno 2013
PAC – Via Palestro 14, Milano