Il MAMAC di Nizza ha recentemente proposto l’opera di Jaume Plensa, scultore tra i più importanti della scena artistica contemporanea. Nato a Barcellona nel 1955, dopo il 1980 ha lavorato a Berlino, Bruxelles e Parigi, ottenendo numerosi riconoscimenti internazionali. I suoi lavori vivono di luce, colore, suoni, plasticità, monumentalità e parole; la resina, con la quale sono realizzati, produce effetti di trasparenza e di svuotamento. Essi suggeriscono, subito, al primo impatto, una dimensione metafisica, una lievità ponderale, una concentrazione dello spirito, una suggestione mistica e poetica. La monumentalità non contraddice questi valori, anzi li rafforza, similmente alle statue egizie o ai Budda orientali. Jaume Plensa raffigura, costantemente, il corpo umano, in una posizione quasi fetale: un corpo che entra nello spazio fisico senza ingombrare perché evoca quello spirituale. “Esso rappresenta l’idea di un contenitore dell’anima, come la bottiglia che trasporta il suo messaggio all’interno per proteggerlo durante il viaggio. Tutte queste grandi figure presentano l’ossessione della ricerca della ripetizione per trasmettere una tensione spirituale che conduca all’astrazione. Numerose culture antiche hanno utilizzato la ripetizione come vettore verso l’intangibile.”
Tatuando, con lettere dell’alfabeto e con parole, questo simbolo asessuato dell’umanità e contenitore di luce, apre anche al linguaggio poetico ed esplicita una ricerca in se stesso, sulla propria origine e identità fisica, sui legami con la realtà esteriore in un processo che si sposta dall’esperienza individuale a quella universale, tendendo al sublime. Le lettere, in Overflow II,III,IV, 2007, sono in acciaio e appaiono sfuggire dalla forma umana, di cui rimane come traccia un incavo vuoto, per andare verso il mondo in un processo comunicativo. “Io attribuisco una grande importanza alla lettera nel suo senso più organico, a causa della sua somiglianza con il corpo. Una semplice parola è come una cellula carica di memorie. Piccole lettere associate con altre formano delle parole e, queste, dei testi che costruiscono delle idee, che sviluppano il pensiero, le culture, le religioni (…). La parola è un ponte che mi riallaccia alla realtà delle cose e degli esseri. Questa potrebbe essere la ragione perché amo le liste dei nomi di alberi, di colori, di artisti ecc.”
Un coinvolgimento totale accompagna lo spettatore che, attraverso un percorso di più linguaggi associati, riflette sulla metafora, sui simboli, sugli emblemi. Il movimento della luce, dei colori, dei suoni e il loro trasformarsi animano la forma statica, ieratica. La plasticità si effonde, attraverso la trasparenza, nello spazio perdendo i suoi contorni netti. La pesantezza piena della materia conosce il vuoto della cavità e conserva solo l’allusione della forma. La monumentalità si frammenta nel tatuaggio e nel doloroso e personale interrogarsi dell’artista sulla propria esistenza individuale. La certezza e il dubbio si affrontano in una sintesi come bellezza e sofferenza, sacro e naturale.
In Doors of Jerusalem I,II,III, 2006, l’artista fa riferimento alle porte della muraglia di Gerusalemme, per le quali respirano le principali arterie della città. Nel Cantico dei Cantici, una donna cerca, instancabilmente, il suo innamorato lungo questa muraglia. Ella sogna l’amore come una porta nel muro. Potrebbe questa muraglia, essere, un’altra metafora del corpo, potrebbero essere le porte un’altra metafora dell’anima. Il sogno e il desiderio sono fusi nella prigione del cuore. Le parole, tatuate sulle opere, si riferiscono al famoso testo biblico.
In Song of songs, I and II, 2004, due cabine evocano la dualità e lo spazio interiore personale. Esse sono realizzate con dei blocchi di vetro fuso trasparente e sono illuminate dall’interno. Installate in posizione di dialogo, esse invitano lo spettatore a entrare, per ascoltare, in silenzio, il rumore del proprio respiro al ritmo del cambiamento della luce.
Con l’installazione Conversation à Nice, realizzata nella storica Place Masséna, all’interno del percorso artistico, lungo la nuova Tramway, voluto dalla Communauté d’Agglomération de Nice Côte d’Azur, Plensa propone la sua poetica in ambito pubblico. Su alte colonne d’acciaio, figure umane, quasi antichi stiliti, in mutante luminosità cromatica, sembrano intenti, nel cielo della città, a conversare in ginocchio o accovacciati sul destino degli uomini.
“Come la base di un profumo che aiuta a fissare un odore, l’arte, nello spazio pubblico, deve aiutare a fissare il profumo evanescente della società. La comunità è costituita da una moltitudine di persone anonime che vivono e scompaiono all’interno di un processo permanente che lascia una traccia unica, speciale e che conferisce una personalità al luogo (…). L’irruzione del movimento del tram e il suo impatto visuale in una struttura molto classica, mi hanno portato ad una concezione simile alle vetrate medioevali, a un lavoro, cioè, su tre livelli. Al primo livello, il tram e l’architettura esistente si articolano in una nuova relazione; al secondo livello ci sono le persone che utilizzano il tram, gli abitanti degli immobili e i negozianti; per finire, al terzo livello, la mia invenzione, che introduce l’elemento spirituale che mancava: le figure dei miei personaggi di luce, assisi su dei pali, che guardano, dall’alto, il passaggio della gente e delle cose. Io penso che quest’opera includa lo spirituale, il transitorio e l’effimero nello spazio: come se la piazza, da corpo inerte, avesse ricuperato la sua anima, la sua vita”.
Silvia Venuti
D’ARS year 48/nr 194/summer 2008