Mentre il sistema moda si sta riorganizzando nei calendari e nelle presentazioni, alcuni brands cedono al fascino della “new frontier”.
L’Invitation Au Voyage è il titolo di una poesia tratta da Les Fleurs du Mal di Baudelaire ed è anche un titolo ricorrente nelle ad campaigns e nella comunicazione della Louis Vuitton. Per il più redditizio dei luxury brands contemporanei è un richiamo alla tradizione e alle origini del fondatore, “malletier” nella Parigi di metà ‘800, ed è lo stesso tema che ha animato la mostra Volez, Voguez, Voyagez – Louis Vuitton al Grand Palais di Parigi, terminata lo scorso 21 febbraio. Ma in breve tempo sta diventando anche una pratica continuativa che porta le griffes a trasferire a vari angoli del pianeta la sede, o meglio il set, di presentazioni e sfilate.
La sfilata spettacolo, il fashion show (il termine anglosassone è preferibile perché meno ambiguo) è un dato di fatto da quasi due decenni, da quando la presentazione delle nuove collezioni avviene all’interno di una narrazione scenografica che unisce la necessità commerciale a quella comunicazionale. Ovviamente per chi può o vuole permetterselo: da un lato c’è Chanel (per fare un esempio) e la sua fiction iperrealista che si manifesta nell’allestire palcoscenici da sogno all’interno del Grand Palais, e dall’altro c’è la new entry Jacquemus che svolge i suoi fairy tales minimali con pochissimi oggetti scenici (un gomitolo gigante, un cavallo bianco con un unicorno di cartone). Si tratta essenzialmente di una scelta mediatica, che ormai coinvolge anche la moda uomo – come dimostrano le più recenti edizioni di Pitti – un intrecciarsi di installazioni (fra le quali merita citare la collaborazione fra Marco De Vincenzo e l’artista Patrizio Travagli nell’edizione di gennaio 2016) e di partecipazione attiva dei visitatori alla performance attoriale, che non è più sola prerogativa di chi fa lo spettacolo in passerella, ma anche dei fruitori, bloggers o compratori che siano.
Lo show fin qui delineato però può non bastare in un fashion system che sta ridefinendo i propri calendari e le proprie strategie creative.
Per quanto riguarda i calendari: la rimodulazione delle politiche di vendita, sollecitate dalla concorrenza della grande distribuzione e volte a proporre continuamente nuovi capi alla clientela, fa sì che alle fashion weeks semestrali si siano affiancate le presentazioni delle pre-collezioni, delle “cruise collections” e altri eventi. Lo sforzo creativo non è più concentrato su pochi appuntamenti ma diluito lungo tutta la stagione, e ogni tappa deve essere sostenuta da una comunicazione adeguata.
Proprio le pre-collezioni stanno segnando lo smarcamento dalle “città totem” della moda (Parigi in primis), e se Chanel propone un allestimento aeroportuale con “hostess” munite di trolley (Spring 2016), con le collezioni Métiers d’Art e le Cruise, che precedono la primavera, le destinazioni si moltiplicano: Salisburgo, Dallas, Mumbai, Edimburgo, Shanghai e Cinecittà fra le varie.
Ma non solo Chanel, citando fra i più recenti “destination shows” Louis Vuitton a Palm Springs per la cruise 2016 e Christian Dior, sempre per la cruise 2016, in Costa Azzurra, al Palais Bulles progettato da Antti Lovag.
Questo irrompere della “dimensione viaggio” e la delocalizzazione nelle presentazioni è sì necessità di consolidamento di mercati (l’Asia, soprattutto) ma è evidentemente anche una nuova frontiera scenografica e creativa.
Un’ambientazione come quella dell’architettura di Lovag è scenografia e metafora della collezione presentata, uno statement che anticipa un elemento ludico nella collezione post luxury di Raf Simons, pensata come “umana e individualista” per l’accento su linee dolci e curve che disinnescano la formalità perfetta del brand (Antti Lovag stesso definì la linea retta “un’aggressione contro la natura”).
I rimandi al concetto di “abito (concepito come) architettura” sono una costante nella moda, e anche la location scelta da Vuitton a Palm Springs (la villa di Bob Hope disegnata da John Lautner, un architetto che ha fatto la storia dell’architettura organica) non è casuale.
Ma è il viaggio stesso, un bisogno di esotismo ora rinnovato da mete non canoniche, ad essere un eterno bacino ispirativo per la moda, in una relazione ciclica e chiusa: viaggio>ispirazione>collezione>sfilata che riproduce un viaggio, fisico e creativo.
I viaggi, “les pays lointaines”, sono da sempre fonte di suggestioni per le rielaborazioni della moda, e anche a livello simbolico i concetti che suggeriscono (movimento, evoluzione, apertura, trasformazione – di sé e delle cose) offrono una doppia lettura, simbolica, di linee ed elementi decorativi.
È fuori discussione che in questi mesi il sistema moda si stia riorganizzando, anche con bruschi riassestamenti (abbandoni di designers, Simons e Dior, in primis, e turn over troppo destabilizzanti), la sensazione che un ciclo di strategie commerciali si stia chiudendo è forte, e resta quindi da capire se questi ricorrenti spostamenti fuori dai confini noti, con tutto il plus organizzativo che comportano, abbiano anche un significato rigenerante, lontano dagli spazi consueti, in ambienti evocativi per la comunicazione e allo stesso tempo per l’ispirazione.
Oppure un diversivo? Una forma di escapismo in un momento in cui non sono ancora del tutto chiare le direzioni future fra la necessità di articolare le proposte al di là del bisogno di lusso – ormai appagato – dei paesi emergenti, e, a livello di comunicazione, la necessità di intervenire pesantemente nello spazio grigio, online, fra brand e consumatore, che non può più essere limitato a e-commerce e streaming di eventi.
Una fuga, forse, o un contenuto fondante.
Per ora l’ennesimo, ed ultimo in ordine di tempo, “break” nello schema è la sfilata uomo di Saint Laurent a Los Angeles il 10 febbraio 2016, con preview della sfilata donna: L.A., e fuori da qualsiasi calendario. Have a good trip.
Claudia Vanti
D’ARS anno 56/n. 222/primavera 2016
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