Intervista di Sara Marchesi a Marco Scotini, curatore del padiglione albanese alla 56ma Biennale di Venezia.
Sara Marchesi: Nel Padiglione Albania, l’artista chiamato a rappresentare questo paese, Armando Lulaj (1980), porta a compimento la sua Albanian Trilogy: A Series of Devious Stratagems iniziata nel 2011, con il nuovo film Recapitulation. Con questo progetto torni a riflettere come curatore sul concetto di Modernità, allo scopo di presentare – o forse rileggere – parte della storia di questo Paese.
Marco Scotini: Pur essendo un progetto che parte da una storia limitata e locale, come quella albanese, l’idea della modernità – così come dici tu – continua a essere al centro anche di questo nuovo capitolo. In questo caso è il socialismo che porta l’elettrificazione, l’alfabetizzazione, l’invenzione di un’identità nazionale dove c’erano solo società tradizionali e arcaiche. E fa ciò costruendo nuove mitologie che servono a mantenere la coesione sociale o ad assicurare il consolidamento politico, il culto del leader carismatico.
Il progetto Albanian Trilogy si concentra soprattutto su una di esse: quella dell’invenzione del nemico nel tempo della Guerra Fredda. Gli “stratagemmi equivoci” a cui fa riferimento il sottotitolo sono proprio le trovate astute e illusorie con cui si cerca di esorcizzare il nemico. L’Albania è, in questo senso, un terreno privilegiato perché è stato il paese più isolato del blocco comunista, che ha scelto di allontanarsi prima dalla Yugoslavia, poi dall’URSS, poi dalla Cina per rinchiudersi progressivamente in un totale isolamento garantito da migliaia di bunker per tutto il paese e dalla paranoia del nemico. Come dire? Abbiamo a che fare con un caso paradigmatico che ha molto di contemporaneo.
L’Albania non ha mai avuto un padiglione fisico nella sede dei Giardini, dove gli edifici funzionano come ambasciate in terra straniera delle nazioni rappresentate, tuttavia quest’anno ottiene uno spazio importante nella sede dell’Arsenale: in che modo il progetto Albanian Trilogy si è relazionato a tale contesto?
La Biennale di Venezia è qualcosa che non si sa dove cominci e neppure dove finisca: la mostra tematica è molto estesa, i padiglioni nazionali sono oltre cinquanta e gli eventi collaterali centinaia. Per me e Lulaj l’idea di una rappresentanza albanese è venuta come un pensiero naturale. Lavorando entrambi sull’archeologia del presente abbiamo pensato anche a un padiglione che, in un certo senso, nel momento in cui per la prima volta si afferma, dichiara anche la propria apparente inattualità.
Dunque abbiamo sviluppato un lavoro tanto sui contenuti che sui format espositivi. Tanto ai Giardini di Castello che all’Arsenale (o nei Padiglioni ospitati nei palazzi veneziani) quest’idea della rappresentanza nazionale non sembra essere più un problema: si tratta di progetti artistici sponsorizzati dallo stato. Nel nostro caso, invece, volevamo che emergesse quell’elemento che chiamiamo Albania e dunque abbiamo voluto presentarlo attraverso la sua storia. Il Padiglione si presenta in facciata con la riproduzione di un grande quadro di un esponente del realismo socialista come Spiro Kristo e sopra campeggia il nome Albania come coronamento. Fa il verso, cioè, alle forme di propaganda socialista ma anche ai padiglioni novecenteschi che si trovano ai Giardini. È una time-capsule che sembra ferma al passato. Dunque si tratta di un’apparente anomalia all’interno delle Artiglierie dell’Arsenale dove si trova il nostro padiglione. È pur vero che dopo la nomina due anni fa di Edi Rama come premier, è la prima volta che l’Albania si presenta alla Biennale di Venezia con un padiglione centrale e con un grande sforzo da parte del Ministero alla cultura, attraverso Mirela Kumbaro Furxhi.
All’interno del catalogo, che è trattato come un atlante storico e come un’estensione della mostra, sono pubblicati materiali d’archivio e documenti finora inediti, alcuni dei quali saranno esposti all’interno del padiglione stesso. Quanta importanza hanno avuto questi materiali nella realizzazione della trilogia filmica di Armando Lulaj e nell’ideazione della forma espositiva adatta a presentarli?
Il libro, edito da Sternberg Press, è parte integrante dell’esposizione: contiene quello che non si trova in mostra. Presenta una narrativa parallela in cui quello che appare in atto nei tre video di Lulaj, risulta allo stato d’archivio. I materiali che provengono dall’Archivio di Stato Albanese, dall’Archivio del Ministero della Difesa e da quello degli Interni mostrano l’arrivo di Krusciov a Tirana, quello di Chou En Lai, documenti di Howard J. Curran, il pilota americano catturato, gabinetti scientifici ed esercitazioni militari. Ci rimandano a quel contesto che sembra riattivarsi nei video, dove Lulaj cerca di riportare dei reperti abbandonati alla loro funzione originaria. Questi materiali sono però soprattutto uno sfondo contestuale: rimangono fuori dal lavoro vero e proprio. Tranne il gigantesco readymade della balena del Mediterraneo, che sta al centro del progetto espositivo, sopra una pedana come un silente testimone. Sottratto al Museo di Storia Naturale di Tirana, questo trofeo animale è ora nel suo luogo deputato. Non solo perché era apparso come un sottomarino americano all’esercito albanese e si era trasformato nel suo bersaglio, ma anche e soprattutto perché la balena è il simbolo del Leviatano e della sovranità politica.
Albanian Trilogy. A series of devious stratagems ha come obiettivo la rilettura di precisi eventi storici, che sono stati riportati alla luce dopo anni di oblio dalle azioni di Armando Lulaj che potrebbero essere definite di ri-animazione. In questo caso, mi pare risulti centrale una riflessione sui regimi di rappresentazione e di visibilità di un passato e delle sue reliquie. Il tuo intento sembra essere stato quello di rivisitare questo passato secondo una nuova politica della memoria: parte della tua ricerca a riguardo è pubblicata nell’antologia Politiche della Memoria edita da DeriveApprodi.
Nei tre film di Lulaj c’è la messa in atto di una sorta di operazione riparatrice. Non si tratta tanto di rammemorare ma di performare un possibile risarcimento nei confronti della storia. Si ricompongono i pezzi, si ripara il guasto ma in Lulaj questo passato rimane irredento. Anzi si trova intrappolato in una più comprensiva forma del potere. Quella che era la potenza coercitiva del regime di Hoxha si è trasformata ora nell’onnipotenza delle cosiddette democrazie occidentali. Dove il potere e l’obbedienza erano evidenti, ora sono celati dalle subdole strategie di sicurezza delle attuali democrazie. Se vogliamo “risarcire” dobbiamo radicalmente smascherare l’ipocrisia di questo nostro presente.