«SE ASPETTI LE PERSONE RIUSCIRANNO A DIMENTICARE la macchina fotografica e la loro anima verrà alla luce» dice Steve McCurry. A due passi dal meneghino Duomo, nel duecentesco Palazzo della Ragione c’è qualcosa che vale davvero la pena di vedere: duecentoquaranta fotografie, trent’anni di immagini scattate da uno dei più conosciuti e premiati fotografi contemporanei, quello Steve McCurry divenuto famoso e conosciuto al grande pubblico per il ritratto di ragazza con gli occhi verdi scattato in Pakistan nel 1984, che fece il giro del mondo sulla copertina del National Geographic.
Steve McCurry, classe 1950, dopo una laurea con lode in Arti e Architettura alla Pennsylvania State University lavora per due anni in un giornale e intraprende quindi un viaggio in India durante il quale imparerà a guardare e aspettare la vita. Da allora viaggia per il mondo, a sud e a est, fermando istanti, cogliendo espressioni, gesti e sguardi, congelando attimi di vita.
Ma le fotografie di McCurry sono molto di più, anche per merito dell’allestimento ideato da Peter Bottazzi che ha saputo con maestria sfruttare l’ampio salone quadrato al primo piano del palazzo milanese, costruendo un percorso dinamico e personalizzabile da ogni visitatore. La mostra è divisa in sei sezioni e ha tre piccole appendici, è costruita come fosse composta da alti e frondosi alberi i cui rami si intrecciano tra loro svettando in cielo, con le fotografie appese come foglie, visibili da entrambi i lati, che sembrano sovrapporsi l’una con le altre, lungo un percorso dalle mille sfaccettature ed intersezioni. Entrando nella sala, un po’ buia e da subito fitta di immagini come fosse davvero una foresta di fotografie, si cerca un senso nel percorso, si inizia tentando di seguire un filo che in realtà si snoda e si intreccia senza sosta, sovrapponendo immagini ad altre immagini, mescolando le sezioni come le carte del mazzo di un prestigiatore.
L’altro è la prima di queste sezioni, un fitto intrecciarsi di volti, femminili, maschili, giovani e anziani, primi piani, con gli occhi aperti, sgranati sullo spettatore, su di noi che camminando per gli spazi della mostra scopriamo ad ogni passo una fotografia nuova, un viso diverso, ogni volta fortemente intenso, col quale dialoghiamo, se pur muti, parlando di noi e ascoltando le sue parole, le sue frasi, perdendoci dentro occhi di altri, così diversi e così emozionanti.
La seconda parte, Il silenzio e il viaggio, sembra prendere spunto da una frase di Madre Teresa che dice che “dobbiamo ascoltare il silenzio, se vogliamo sentire l’anima commuoversi”, ed è proprio questo, o almeno così pare, essere il motivo alla base delle immagini scattate da McCurry, fotografie che silenziosamente parlano di ricerche interiori, di preghiere, di mute richieste di uomini ad altri uomini, di dialoghi umani con Dio, dell’arcana ricerca del contato col divino.
Poi esplode la Guerra, in Kuwait, in Afghanistan, in Libano, dove il fotografo, sempre in prima linea, ha scattato immagini che potessero raccontare al mondo quello che stava succedendo, delle conseguenza dei conflitti, di animali moribondi, di cadaveri e di ospedali, di cieli neri, di grattacieli colpiti nel cuore dell’America mentre cadevano al suolo come cartapesta bruciata.
E a seguire, forse catartica, la Gioia, istanti, frammenti di quotidianità, lo scorrere della vita, gesti all’apparenza privi di importanza ma invece densi di sentimenti, di emozioni: pose, sguardi complici, sorrisi e risate, normali attimi di vita che fermati per sempre dagli scatti di McCurry diventano preziosi simboli di amore e speranza.
La Dichiarazione dei diritti del fanciullo approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1959 introduce alla quinta sezione della mostra, al quinto albero, all’Infanzia, i cui rami sono carichi di immagini di bambini sfruttati, privati degli elementari diritti all’uguaglianza, alla protezione dalla discriminazione, all’istruzione, al gioco, costretti a lavorare, a faticare, a servire, addestrati alla guerra come fossero veri soldati.
E infine La bellezza, tre ritratti, tre volti femminili, la celebre ragazza afghana dagli occhi verdi, la bambina velata di bianco e la giovane pakistana dalle iridi blu, che colpiscono per l’intensità dello sguardo, per la forza che emanano dai loro occhi che ci fissano e incantano tanto che non possiamo che restare a guardarle a lungo, quasi perdendo la cognizione del tempo, senza riuscire a staccarci da queste fotografie di rara bellezza appunto.
E poi alcune Short stories, gallerie di ritratti, il racconto dei monsoni asiatici, una serie di scatti sul tema dell’HIV realizzati all’interno di una casa vietnamita; tre immagini dedicate dal fotografo all’Expo 2015, tre fotografie che parlano di popoli e cibo; alcuni scatti dedicati a ¡Tierra!, un progetto di sviluppo sostenibile avviato da Lavazza in tre paesi dell’America Latina.
Giunto alla fine del percorso il visitatore non può che sentirsi un po’ diverso, cambiato, forse più consapevole del significato e dell’importanza delle piccole rughe sul volto di un minatore afghano, conscio dei conflitti e delle guerre più o meno devastanti che quotidianamente scuotono il nostro mondo, certo più attento a cogliere i piccoli importanti gesti del quotidiano.
Voltandosi per dirigersi verso l’uscita egli percorre nuovamente la mostra, vede ancora le medesime fotografie, ma le guarda ora da una diversa angolazione e sotto una luce nuova, tanto che gli sembra siano altre immagini, gli paiono essere nuovi scatti, differenti da quelli osservati fino a quel momento. È come trovarsi ad una nuova esposizione, perché la diversa prospettiva, il continuo cambiare del punto di vista dato dallo spostarsi del visitatore nello spazio costituito dalla grande sala in cui la mostra è allestita, costruisce ad ogni passo, ad ogni girare intorno alle immagini, una prospettiva nuova, altra, un nuovo scorcio, che crea un dialogo ogni volta diverso tra le immagini del fotografo americano.
Muovendosi fisicamente tra le fotografie di McCurry si viaggia idealmente in terre lontane, si incontrano popoli sconosciuti, si guardano paesaggi così emozionanti da togliere il fiato, in un viaggio che se fisicamente non è faticoso, né lungo o pericoloso, simbolicamente spalanca porte e scatena emozioni così intense e personali da rendere difficile una descrizione delle medesime, e tali da rendere la parola “bello” forse l’unica, nella sua ontologica purezza, adatta a descrivere le sensazioni provate.
Martina Gianino