“Abbiamo nel nostro corpo un corpo antico”, scriveva negli anni ottanta Jerzy Grotowski. Domenico Castaldo ha lavorato nel suo Workcenter e ha fatto sua la ricerca sul corpo come risonatore, come battito, come pulsione come gesto che è segno performativo arcaico e universale nello stesso tempo. Il suo teatro, passato da Ronconi e dallo Stabile di Torino è oggi quello che la Transavaguardia fu per il concettuale. Un amore per la materia dell’arte, un ritorno alla necessità della materia, prima della speculazione e dell’astrazione del pensiero. Se il teatro va verso le perfoming art, se al teatro chiediamo di essere installazione (si pensi alle spericolate avventure di OHT office for a human theatre), Castaldo ci parla invece dai bordi di un’inutile corsa alla ricerca del nuovo.
Castaldo ha incontrato i Figurelle, costola del suo LabPerm e dall’incontro è nata Figurelle. Canzoni, storie e apparizioni, un’esperienza musicale popolare nel senso di folk, ma anche di tradizione, radici, connessioni con modelli performativi arcaici, precedenti alle forme liturgiche, alle danze contadine, alle differenziazioni regionali.
Il suo teatro va visto e ascoltato fuori dai templi dei crossmedia, del cultural design, dei funambolismi lessicali che descrivono la ricerca oggi. Noi lo abbiamo visto in una corte: al Teatro del Fontego di San Pietro Incariano in provincia di Verona. Tra vecchi attrezzi agricoli abbiamo ritrovato, non il teatro di piazza che già invase i festival negli anni di Drodesera, ma la fecondità stessa del teatro, quella che Grotowski appunto chiamava il tu: “sei tu duecento, trecento, quattrocento o mille anni fa, ma sei sempre tu. Perché colui che ha cantato le prime parole era figlio di qualcuno, di qualche posto, di qualche luogo. C’era gente reale attorno a te, vicino o lontano; allora, se ritrovi tutto ciò, tu sei figlio di qualcuno”.
Un tu e un noi, come nei filò per la festa, il sabba, il rito. La sua musica fa vibrare le ossa, i muscoli e il corpo. I suoi vocalizzi e quelli del gruppo Figurelle sono la coralità sacrale della comunità. Quella che oggi porta avanti al Workcenter Mario Biagini per intendersi e che è la sintesi della ricerca musicale di Stanislavskij con la filosofia dei Tarahumara di Artaud. Un’antropologia risolta nella coralità leggera perché ogni voce armonizza una comunicazione intensa con gli spettatori.
I sei musicisti con cinghie di cuoio, stantuffi, maracas artigianali, una chitarra e ogni sorta di tamburi ci raccontano di mafia, amanti russi, rivolte e rivoluzioni. Il tutto con quell’ironia che sa domare e misurare l’esuberanza e la passione. Non c’è la volgarità di far partecipare il pubblico ad inutili battimani, o quella di rendere il tutto cantabile e orecchiabile, ma Castaldo trova nella perfezione del gesto quel rispetto troppo spesso latitante per lo spettatore. Le aperture della cavità mandibolari, la danza che si fa necessità per la parola sono un equilibrio perfetto. Il suo teatro che un po’ ci ricorda i Brincadera, un po’ l’anarchia cinica di Piero Ciampi è leggero perché è moderato. Non nei testi, non negli obiettivi. Sia ben chiaro, “il mondo che ci dicono vero e un misero inganno, è un buco nero” e “c’è una voglia di rivolta che non s’arresta”. Ma la nostalgia del Living è diventata autoironia e quei meravigliosi anni ancora pulsano come figurelle, come tarocchi, come carte da gioco che vibrano di un’aria di rivoluzione popolare perché sa, perché ormai sa che “se lasci andare ogni pensiero sarai libero come uno sparviero”.
Simone Azzoni