Guardare al teatro contemporaneo, inteso come contesto della ricerca artistica sempre più contaminato da linguaggi “altri” e spurio, significa anche tenere conto dei modi in cui esso si interroga sulla sua funzione sociale. A cosa serve oggi il teatro e soprattutto a chi?
Una delle risposte che sembra provenire dagli artisti e nell’ambito dei festival – cioè in quei contenitori che, in Italia e nel mondo, disegnano la mappa della spettacolarità dal vivo e offrono un territorio per il lavoro degli artisti e degli spettatori – riguarda, con ancora più vigore del passato, la condivisione di un immaginario e il confronto sui contenuti che sappia conciliare l’intrattenimento con l’efficacia. In questo quadro il teatro parla del mondo in cui viviamo a uno spettatore inteso come soggetto interessato e coinvolto, pensato come cittadino/citoyen cioè come individuo attivo, adatto al ritrovato accordo fra teatro e polis. Non è un caso che il tema della cittadinanza occupi un posto centrale nel dibattito culturale e che si estenda ai processi di partecipazione alla comunicazione che riguardano, oggi più che mai, le diverse agorà dischiuse dagli ambienti mediali online e off line che abitiamo.
E difatti anche le “antenne” del teatro e delle arti performative in genere intercettano la necessità sociologica di ritornare alla collettività sia nel senso della partecipazione, sia in quello di una presa di coscienza del bene pubblico e della memoria condivisa.
Un primo esempio interessante in questa direzione è fornito da Richard Maxwell (classe 1967) che con la sua compagnia New York City Players ha realizzato durante la quarantaduesima edizione del Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza (2012) una versione site specific del lavoro intitolato Ads. Si tratta di un ciclo di spettacoli inaugurato a New York nel 2010 che ha toccato diverse città del mondo e coinvolto gli abitanti per la sua realizzazione. A Santarcangelo, in particolare, ha impiegato una trentina di persone del posto che hanno costruito e interpretato un breve monologo a partire dalle domande “a cosa credi” e “cosa è importante per te”. Dal punto di vista della resa formale lo spettacolo è concepito come una piccola processione fantasmagorica – visto che le immagini dei singoli performer che si avvicendano sul piccolo piedistallo/podio per dire la loro sono proiettate su un invisibile schermo di vetro – in cui viene posta la questione di un mondo in crisi di identità e dominato dall’advertisement (abbreviato in Ads appunto) dove diventa necessario riprendersi il proprio spazio vitale, non solo metaforicamente.
E così partecipanti, diversi per genere, età, professione, prendono la parola per dichiarare di credere in ancora in Dio, per affermare il valore della gentilezza nel rapporto con gli altri o di un pezzo di terra da riprendere e coltivare; per ribadire l’importanza della bellezza urbanistica contro gli ecomostri diffusi un po’ dappertutto oppure del vegetarianismo come riscatto di un’umanità violenta…
Sulla stessa scia, coerentemente con il progetto dell’ultima edizione del Festival di concepire la piazza (nella fattispecie Piazza Ganganelli) come sede privilegiata per rivolgersi senza mediazioni alla comunità di spettatori, può essere osservata la versione open air di Nascita di una Nazione dell’Accademia degli Artefatti, episodio tratto dalla serie intitolata Spara/trova il tesoro/ripeti di Mark Ravenhill. Qui quattro “viaggiatori” e i loro trolley sorprendono il pubblico-cittadino di un’antica civiltà devastata per poi incitarlo a salvarsi e a rinascere attraverso l’arte. In una sorta di epopea moderna che ha come riferimento esplicito la forma della Guerra Moderna, l’Iraq in particolare e il rapporto fra oriente e occidente, il progetto di Fabrizio Arcuri e degli Artefatti ricerca l’attualità “civile” del teatro e la qualità salvifica dell’arte chiedendosi se possa essere davvero lo strumento adatto a sublimare la violenza e i soprusi di cui i popoli in guerra sono sempre le vittime. Anche quando si percepiscono dalla parte dei carnefici come succede a Damir Todorovic in As it Is spettacolo in cui, con il supporto di Valentina Carnelutti e della macchina della verità comprata su ebay, cerca di mettere a confronto i ricordi di oggi con quelli sedimentati mentre era soldato in Bosnia nel 1993 su un diario. L’intento è quello di stanare, con l’aiuto della tecnica, la differenza fra la realtà dei fatti e il ricordo che ne resta fra elaborazione e rimosso. Se i fatti accaduti sono stati raccontati a caldo nel diario e affidati alla memoria scritta, allora As it Is è uno spettacolo che ha per tema la memoria individuale intrecciata con quella di un trauma collettivo. E il teatro, ancora una volta, viene utilizzato come il luogo dell’elaborazione simbolica, e perciò “curativa”, non solo dell’attore/soldato ma dello spettatore messo a parte di una vicenda che riguarda anche lui.
Una cornice, quella della memoria biografica e sociale, che rimanda all’identità e al senso di appartenenza così come racconta la compagnia berlinese She She Pop nello spettacolo
Schubladen. Il titolo rimanda ai cassetti che contengono una serie di cose – libri, libri di scuola, diari, fotografie, vinili, musicassette, vodka e prosecco… – utili a tre coppie di coetanee tedesche provenienti dalla ex DDR e dalla Germania Ovest per confrontarsi sulla memoria individuale e collettiva così come è stata costruita prima e dopo la caduta del muro di Berlino dai due diversi fronti della storia.
Tutti esempi, ma ce ne sarebbero molti altri, utili a rintracciare i moventi sociali che il teatro contemporaneo sta vivendo ed esplicitando. Si tratta di casi in cui la forma/finzione dello spettacolo, sempre concepito a partire dalla drammaturgia, si pone al servizio di idee più adatte allo spirito del tempo e al bisogno di realtà, più orientate a rievocare il “noi” che a ribadire le istanze dell’io, per una cultura impegnata a diffondere il senso più “vero” della partecipazione e a trovare i luoghi più adatti per esercitarla.
Laura Gemini
D’ARS year 52/nr 212/winter 2012