Omaggio a Pierre Restany
SI È INAUGURATA IL 6 NOVEMBRE SCORSO, AL PAC DI MILANO, la mostra “Il Nouveau Réalisme dal 1970 ad oggi”, curata da Renato Barilli e dedicata a Pierre Restany. Un doveroso omaggio al grande critico francese che ha acutamente saputo cogliere lo spirito della seconda metà del Novecento e prevedere le ramificate propagazioni sul futuro. Non è da sottovalutare il fatto che il terreno fertile per accogliere tali innovazioni sia proprio Milano, patria di adozione di Restany, il quale nel capoluogo lombardo trova il giusto ambiente per dare voce alle rivoluzioni estetiche di cui da subito si fa mèntore. Fondamentale l’incontro alla fine degli anni ’50 con Guido Le Noci, il quale, nel 1960, apre le porte della sua Galleria Apollinaire agli artisti del Nouveau Réalisme, presentandone il Manifesto ed esponendone le opere. Oltre dieci anni di successi e sodalizi, fino ad arrivare alle celeberrime manifestazioni di chiusura per la “morte” del movimento, nel 1970, che coinvolsero l’intera città, con l’appoggio dell’allora Assessore alla Cultura Paolo Pillitteri.
Il movimento del Nouveau Réalisme viene fondato a Parigi, a casa di Yves Klein (grande assente alla mostra milanese) il 27 ottobre 1960, da Arman, Dufrêne, Hains, Klein, Raysse, Spoerri, Tinguely e Villeglé. César e Rotella, invitati ma non presenti, si uniscono in seguito come faranno anche Niki de Saint-Phalle, Christo e Deschampes.
Le Nouveau Réalisme est mort, vive le Nouveau Réalisme!, proclama Barilli, che attraverso la mostra vuole rivedere, alla giusta distanza storica, la portata e le conseguenze di quel movimento, sostenendo con cognizione di causa che esso godeva ancora di ottima salute, e ha continuato a vivere e produrre i suoi effetti artistici anche dopo la sancita conclusione. In realtà, come giustamente ricorda il curatore, Restany non accettò mai in pieno quella “fine” dichiarata da molti rappresentanti del gruppo che ad un certo punto sentirono la necessità di prendere strade più autonome. Infatti, scrive Barilli nel suo puntuale testo di apertura nel catalogo, (…) non credo affatto che l’impresa novorealista fosse chiusa, allora, e già pronta per essere consegnata alla storia. Essa è rimasta viva, presente, attuale e, dunque, il critico aveva ragione nell’insistere a darle un suo pieno appoggio (…) non per questo i singoli elementi della prima fase sono venuti meno alle coordinate a cui avevano aderito, questa è la tesi di fondo che mi spinge a celebrare la preveggenza critica di Pierre anche nella fase post settanta (…)
Altro non trascurabile intento della mostra è quello di sottolineare l’importanza storica del côté europeo che va ripensato nel suo importante ruolo innovatore, con i grandi interpreti che nulla hanno da invidiare ai protagonisti d’oltreoceano di quegli stessi anni e degli anni a venire.
In mostra, dunque, una nutrita galleria di opere dei firmatari del Manifesto, tranne Klein (morto nel ’62) e Raysse (che ha preso strade differenti), prodotte dopo il ’70: opere che mantengono l’audacia degli esordi, amplificata e sondata in tutte le possibili estensioni, e che si collocano in posizione di parità, se non di superiorità, rispetto ai migliori requisiti dell’attuale ricerca internazionale.
Una delle presenze più significative è quella di César: una decina di spettacolari Compressioni costellano l’esposizione e confermano la geniale intuizione di Restany nel definire tali operazioni “appropriazioni del reale” che si collocano a 40 gradi sopra dada, e cioè con intento ben più consapevole e costruttivo rispetto al ready-made duchampiano. Altre incontestabili protagoniste sono le opere di Arman, in un completo repertorio tra accumulazioni, collere, tagli, che a volte rasentano il kitsch, nella loro ostentazione di ripetibilità. (Vorrei però qui rammentare, per verità storica vissuta, che Restany si rifiutò di presenziare all’inaugurazione della mostra dell’artista nizzardo, durante la Biennale di Venezia del 2001).
Daniel Spoerri ricorre invece a opere apparentemente lontane dal suo passato novorealista presentando un insolito esercito di guerrieri della notte e di Idoli di Prillwitz. Sculture in bronzo immerse in una stanza nera, che mantengono però costante l’impulso accrescitivo, dilatatorio.
Di Jean Tinguely, il PAC riempie un’intera stanza con l’opera colossale, Dernière collaboration avec Yves Klein, proveniente dal museo di Basilea a lui dedicato: megascultura a poetici ingranaggi che convive con alcune significative opere dell’allora compagna Niki de Saint-Phalle.
Importante anche la presenza dei décollagistes, Mimmo Rotella -in primisfedelissimo amico di Pierre Restany fino alla sua scomparsa, François Dufrêne, Raymond Hains e Jacques Villeglé. Al piano superiore dell’esposizione vediamo una nutrita serie di progetti delle installazioni ambientali di Christo e Jeanne-Claude.
Infine, l’indagine di Gérard Deschamps sugli elementi soffici e di “cattivo gusto” in cui si avvolge la nostra esistenza quotidiana, completa il ricchissimo corpus di opere esposte al PAC. Non mancano i video e le immagini di repertorio, che rievocano le storiche giornate del 1970, sia con il documentario girato allora da Mario Carbone, sia con le testimonianze fotografiche registrate da Ugo Mulas. Un filmato dell’operatore canadese Marc Israël-Le Pelletier, infine, mostrerà Restany all’opera nelle varie sedi della sua industriosa presenza milanese, con immagini girate principalmente presso Domus e presso la sede di D’Ars, in via Sant’Agnese. Ricordiamo che in mostra vi sono due bacheche con foto, documenti e riviste provenienti dall’Archivio D’Ars.
Il merito di questa mostra e del suo curatore è sicuramente quello di avere puntato un riflettore coerente su fatti e opere della storia di questo movimento importantissimo, e soprattutto di avere restituito a Pierre Restany il suo ruolo determinante e fondamentale, certamente più storicamente fedele alla realtà dei fatti rispetto alle operazioni di derestanysation che sono state effettuate dai cugini d’oltralpe in occasione della mostra su Yves Klein (2006) al Pompidou e di quella sul Nouveau Réalisme (2007) al Grand Palais de Paris.
Cristina Trivellin