Si tende sempre ad associare l’arte alla bellezza, ma l’arte non deve necessariamente avere a che fare con la bellezza. Secondo me l’arte deve essere inquietante, sollevare degli interrogativi, predire il futuro.
Marina Abramović
Credo che per chi abbia frequentato la Biennale del 1997 sia stato impossibile ignorare (e poi dimenticare) l’immagine di Marina Abramović seduta accanto a una montagna sanguinolenta di ossa di animale, mentre per tre lunghi giorni, ininterrottamente, cantando litanie e lamenti, grattava e puliva quel poco di polpa che quei resti conservavano. Intanto, tutt’intorno dei video ricordavano la sua appartenenza a un paese che in quegli anni era pesantemente dilaniato dalle guerre. Quella performance, Balkan Baroque, le è valsa il Leone d’Oro e il definitivo riconoscimento di un lavoro che era incominciato vent’anni prima.
Aveva iniziato con Relation in Space, alla Biennale del 1976: lei e Ulay (l’artista – ma anche il compagno – con cui ha condiviso per molto tempo esperienze lavorative e cognitive) si sono corsi incontro per un’ora come “due pianeti che fondano la propria energia maschile e femminile per dare vita a una terza componente che chiamavamo «quel sé»”[1]. La sua ultima fatica è invece di qualche mese fa al MOCA (The Museum of Contemporary Art) di Los Angeles, dove ha destato scandalo e indignazione con tavole imbandite di teste che sbucano da tovaglie nere, di corpi nudi sdraiati e spolpati, di finti scheletri adagiati su veri corpi inermi e completamente immobili. In una parola: un’apocalisse, in cui reale e artificiale, barbarie e rito, fisicità e spirito si mescolavano in un flusso continuo di contrasti emotivi e fisici.
Pioniera del linguaggio performativo e convinta sostenitrice della forza espressiva del corpo, Marina Abramović (classe 1946), ha deciso di “brevettare” il suo percorso artistico in un “metodo”, come del resto denuncia il titolo della mostra, a cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola, organizzata al PAC di Milano[2]: The Abramović method.
Ma per capire a fondo il criterio di un lavoro così complesso, occorre partire da alcune considerazioni preliminari e da un decalogo di norme e motivazioni imprescindibili.
Innanzitutto, Marina Abramović appartiene a quella schiera di artisti (e per la verità non sono molti) per i quali l’arte deve “sollevare interrogativi”, deve essere un cammino di conoscenza e di arricchimento, oltre che una premonizione sul futuro. Insomma, un viaggio iniziatico condiviso, durante il quale l’artista e il pubblico s’incontrano e si riscoprono uniti: “quando un artista presenta il proprio lavoro, offre un’immagine allo specchio nella quale anche il pubblico può riflettersi, può ritrovarsi”[3]. Ma è un viaggio che impone delle regole e una ferrea disciplina per entrambi, perché il compito è estenuante, spesso al limite della sopportazione fisica e psicologica, proprio perché si vanno a toccare tutti i punti nevralgici del corpo e dell’essere, dell’esistere e del pensare: “la performance è una trasmissione diretta di energia”, sottolinea l’Abramović [4].
L’incontro con l’arte (che è poi l’incontro con le verità dell’esistere) deve scuotere, non può lasciare indifferenti. Nella ricerca di quella strada che porta nelle pieghe più difficili della vita, l’artista ha spesso superato limiti fisici e psicologici, a volte ha messo persino in pericolo la propria incolumità, ha infranto schemi e convenzioni, ma soprattutto ha scavato nelle paure per mettere a nudo l’emotività più pura e per far affiorare la parte più vera dell’essere. Non nelle paure, ma nelle emozioni sta dunque il punto di forza dell’umanità, ma a volte per fare emergere quelle più profonde occorre fare i conti con gli aspetti più scomodi e pesanti della vita.
“Le mie azioni diventano sempre più lunghe e difficili con il passare degli anni. Perché con la forza della mente si può fare qualunque cosa: non serve un allenamento olimpionico, ma volontà e disciplina” [5]. Il segreto di questo metodo, ormai brevettato da decine di performance, sta proprio nel binomio interattivo artista-pubblico nel ruolo ambivalente di osservatore e osservato, di attore e spettatore, di vittima e carnefice, in una girandola inarrestabile di continui scambi di posizione, ma anche in uno scandire di attimi infiniti e lenti, diluiti in un respiro lungo e ininterrotto, senza soluzione di continuità e senza la possibilità di vederne la fine.
Sono emblematiche le immagini dei video che raccontano le performances, ma anche le fotografie dei singoli momenti (alcune delle quali accompagnano anche quest’articolo): l’Abramović con in grembo l’agnello sacrificale o nei panni del buon pastore, con la pecora nera sulle spalle e il gregge intorno; oppure crocifissa davanti alla finestra di una grande cucina da refettorio, che ha però tutta l’aria e la sacralità della navata di una chiesa; o, ancora, ritta al cospetto di un paesaggio infinito e deserto, mentre innalza l’agnello votivo contro un cielo di soffici nuvole grigie trafitte dai raggi di un sole bianco e provvidenziale.
C’è sempre un che di sacro nel suo lavoro, che non è da riferirsi esclusivamente al rimando più o meno esplicito a personaggi, fatti e momenti biblici, ma nel modo in cui profetizza o testimonia il martirio dell’essere: una prova estrema, capace di togliere respiro alla vita, ma per arrivare all’estasi e non alla morte.
Lorella Giudici
D’ARS year 52/nr 209/spring 2012
[1] Ivi, p. 19.
[2] The method Abramović, 21 marzo al 10 giugno 2012, Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano. Con la proiezione, al cinema Apollo, del film Marina Abramović. The Artist is Present, diretto da Matthew Akers, prodotto dalla rete americana HBO e distribuito in Italia da GA&A Productions e Feltrinelli.
[3] M. Abramović, in Marina Abramović, Charta, Milano 2002, p. 13.
[4] Ivi, p. 13.
[5]Ha dichiarato Marina durante la mostra al MoMa di New York, marzo 2010.