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Il kitsch non-kitsch: natura ed artificio nell’architettura contemporanea

Guardando tra i casi più noti dell’architettura contemporanea, si può osservare una certa tendenza di avvicinamento alla natura, che si manifesta in una evidente referenzialità formale, compositiva o concettuale. D’altro canto si nota che la natura, come territorio non antropizzato che occupava gli spazi tra le città, è scomparsa. Siamo arrivati a un punto in cui l’urbano ha colonizzato la totalità del territorio, almeno nei paesi cosiddetti sviluppati. La natura allo stato “grezzo” esiste soltanto in riserve che sono sempre territori definiti dall’uomo stesso, come parchi a tema, prigioni o musei, come animali in gabbie. Prendendo in prestito le parole di Domenico Rapuano, “Siamo tornati a una condizione arcaica, quella del brodo primordiale: un unico materiale che ne conteneva molti in potenza. Ora però, è in completamento il processo inverso, quello per cui le cose che una volta erano tenute distinte, stanno rivendicando la loro tensione a riappartenere a un unico magma, più ricco di quello che le aveva originate” [1].

Vicente Guallart, The re-naturalisation of territory (Terragona 2375). Modello virtuale 3D
Vicente Guallart, The re-naturalisation of territory (Terragona 2375). Modello virtuale 3D

A questo punto, non ha più senso parlare di dualità o polarità tra natura ed artificio. Il magma di cui parla Rapuano è diventato la materia stessa di cui è fatta la contemporaneità. L’uomo ha razionalizzato, domato e convertito integralmente la natura in un bene di consumo e universo di forme disponibili. La scomparsa della natura, che era stata temuta da più di duecento anni, dai romantici agli hippies e dai land artists agli attivisti di Green Peace, non è più una distopia. La paura per il cambiamento climatico e gli intenti di capovolgere il processo sono piuttosto sintomi dell’angoscia che la natura diventi inservibile per l’uomo.

Riconoscendo questa situazione irreversibile non solo come fatto ma anche come opportunità di ripartire da zero, vari architetti contemporanei stanno usando questa realtà ibrida come impulso generatore per i loro progetti. In più, con quest’operazione, contribuiscono anch’essi ad alimentare quel magma e a rendere l’amalgama più omogenea, più coesa, più difficile da leggere come una somma di elementi che una volta erano stati irriconciliabili. “Dall’amalgama di natura e artificio nascono nuovi materiali e forme, talvolta antichi come il mondo, ma arricchiti da un sentire contemporaneo: il poroso, le pieghe, la rovina, l’analogia, l’a-scalare dal micro-macro, le geografie artificiali.” [2]

Tutti questi elementi sono riconoscibili nell’architettura di questo secolo, che non segue più i principî canonici, l’astrazione e l’economia formale della modernità (il less is more miesiano), né i riferimenti stilistici ed ironici alla storia, alla località e all’uso specifico degli edifici della post-modernità (il less is a bore venturiano). Il motto adesso è more is not enough. Dalla modernità l’architettura odierna ha ereditato il senso di dominio della natura; dalla post-modernità, il valore ontologico della forma staccata dalla funzione. Oggi, al contrario dell’architettura moderna, la natura non è più soltanto uno sfondo di forme capricciose sul quale si dispongono scatole di calcestruzzo, acciaio e vetro, flottando su pilotis; e al contrario dell’architettura post-moderna, la referenzialità non è più endogamica entro i confini dell’artificio. Gli architetti contemporanei consultano biologi, geologi, chimici, botanici e zoologi per cercare le forme che sono in seguito convertite in spazi funzionali (in questo ordine). La forma ibrida si è fatta essenza. L’architettura è diventata bio-tecnologica, cyborg, centauro.

Siamo, quindi, di fronte a un’architettura basata su forme disponibili, nella mimesi, nella memoria sostitutiva, nella protesi, nel surplus della forma sulla funzione e nella produzione d’immagini riconoscibili e con un chiaro valore emozionale per gli spettatori. Un’architettura spettacolarizzata, discorsiva, narrativa e generatrice di dinamiche che vanno molto oltre l’utilizzo dell’edificio. Insomma, un’architettura kitsch.

L’architettura ha assunto lo scopo di ricostruire, sostituire ed evocare la natura scomparsa, redimendo la colpa degli uomini come agenti di questa perdita, e ricordando il tempo in cui la natura era autentica – come un vero e proprio souvenir. Nelle parole di Marco Jacopino, “l’originale ci sfugge tra le dita (o almeno questo temiamo) e siamo spinti a fabbricare “copie” sempre più “cariche” di segnali, di rimandi ad un Autentico, ad un Passato, che se n’è andato via per sempre.[3]

Questo processo della sostituzione come pratica generalizzata, estesa a tutti gli ambiti dell’attività umana, dalla politica all’arte e ai rapporti sociali, fa sì che il kitsch sia il modello etico ed estetico del nostro tempo. Sulla dimensione etica del kitsch ha scritto Hermann Broch, che ha associato addirittura il kitsch al falso e al malvagio: “L’uomo che capovolge il proprio fine perde in tal modo anche la propria buona volontà. La sua volitio si è rovesciata in nolitio, anzi addirittura nella nolitio perfecta, in cui per S. Tommaso consiste il male. La sua attività è quella del collezionista di oggetti morti, perché il passato, ciò che è stato e ha già ricevuto una forma (…) viene senz’altro identificato con il fine.”[4] Infatti, il kitsch è una traduzione estetica di una questione essenzialmente etica: il relativismo dell’essere, la perdita dell’identità, la sostituzione ontologica o, come dice Broch, la ricerca del valore nel passato, cioè, nella copia. Dunque, se l’amalgama tra natura e artificio è diventata la materia stessa della contemporaneità, possiamo davvero parlare di sostituzione? Come argomentato, la medesima realtà è diventata ibrida, referenziale, scenografica. Perciò, non possiamo affermare che l’architettura, come artificio, evochi imiti il suo contrario, la natura. Quest’architettura ibrida  è, invece, essenzialmente autentica, in quanto costituita dalla stessa essenza del territorio. L’architettura non è traduzione del paesaggio, ma parla la sua stessa lingua. Non c’è nemmeno una riproduzione del paesaggio, ma la sua produzione, in un continuum che non distingue più tra la realtà e i suoi simboli.  Risulta difficile  definire cosa sia kitsch in un mondo che è diventato integralmente kitsch. È inutile collocare gli oggetti in una scala di inautenticità: l’autenticità o c’è, o non c’è. Perciò riteniamo che l’architettura contemporanea in questione non sia kitsch, o almeno non sia più kitsch della Cultura di cui è parte – soltanto rispecchia un mondo che è kitsch nella sua essenza, che è un simulacro totale. E Il simulacro, come propone Baudrillard, “non è mai qualcosa che nasconde la verità – è la verità che nasconde a non esserci più. Il simulacro è comunque sempre vero.” [5]

Gonçalo Sousa Pinto

D’ARS year 50/nr 201/spring 2010


[1] Domenico RAPUANO, Tra naturale e artificiale: un atlante di materiali per il progetto dei territori contemporanei. Tesi di dottorato. Università degli Studi di Napoli Federico II, Facoltà di Architettura; Novembre 2007.

[2] RAPUANO, 2007, op.cit..

[3] Marco JACOPINO, “Raumvergessenheit” e “Fernweh”, ovvero Oblio dello spazio e Nostalgia (di terre lontane). In Spazio Architettura, http://archive.spazioarchitettura.net/download/raumvergessenh-e-fernweh.pdf

[4] Hermann BROCH, Geist and Zeitgeist: the spirit in an unspiritual age; Basic Books, 2002

[5] Jean BAUDRILLARD, Simulacres et simulation, Paris, 1981.

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