Che Jorinde Voigt si sia fatta clonare come faceva Michael Keaton in Mi sdoppio in 4? Scorrendo il suo curriculum, si direbbe proprio di sì. Trentotto anni, da Francoforte, da bambina ha studiato pianoforte e violoncello; all’università, filosofia, sociologia e letteratura tedesca; all’accademia, fotografia e arte multimediale. Se la cava piuttosto bene anche con l’algebra. Ne è venuto fuori un linguaggio visivo unico e originalissimo, che mescola armonicamente i metodi e i mezzi espressivi di tutte quelle discipline (e molte altre ancora).
Per chi scrive d’arte, Jorinde Voigt è un diletto e una croce. Il suo lavoro è così complesso e stimolante da far dimenticare il vuoto di tanta arte contemporanea, ma è anche difficilissimo da spiegare a parole e la sua descrizione può facilmente diventare troppo tecnica se ci si addentra nei meandri di questa o quella disciplina. Potremmo provare dicendo che le opere di Voigt sono l’esatto contrario della fotografia (con cui ha esordito e da cui ha preso presto le distanze): quella mostra l’esterno e l’istante; a lei, invece, interessano l’interno e il durante; ciò che sta attorno e tra; il perché e il percome delle cose. Cioè, non il ritratto di un’aquila che vola, ma piuttosto – per dirla alla Boccioni – il “dinamismo di un’aquila che vola”, dal punto di vista artistico e scientifico. Contemporaneamente.
A tale scopo, s’è inventata un metodo tutto suo. Lavora per serie. All’inizio si muove come una ricercatrice, raccogliendo e registrando con precisione tutti i dati sul soggetto in analisi. Poi li inserisce in complessi algoritmi che li trasformano in forme e colori. Quando si mette a disegnare lascia al contrario che emozioni e percezioni personali “correggano” i dati, creando improvvise e imprevedibili variazioni sul tema, come fa il musicista quando improvvisa (o Pollock quando dipingeva).
Ne emergono grandi disegni, ora somiglianti a uno schema concettuale, ora a una mappa stellare o a un sismogramma, nei quali centinaia di sottili linee, ornate di numeri e appunti, avvolgono strane forme geometriche, botaniche e zoomorfe. In questo modo, è stata capace di mettere in immagini il flusso di traffico di un aeroporto, le percentuali di colore di un giardino botanico, le 32 sonate per pianoforte di Beethoven o il prologo del Faust di Goethe (e qui vi rimandiamo al suo enciclopedico sito, se vorrete approfondire).
Particolarmente affascinanti sono le nuove “Osservazioni nel presente” (Beobachtungen im Jetzt) – in mostra fino al 13 marzo a Milano alla Lisson Gallery, Salt, Sugar, Sex – che sulla carta prendono ora la forma di misteriosi e morbidi organismi color carne, tra un fungo e una vagina, ora di un grande bozzolo azzurro, ora di un ammasso di galassie (in mostra anche otto piccole sculture in bronzo dalla serie Sequence of Solidification, due pezzi della serie Incommunicability e uno dei tre kimono realizzati in collaborazione con lo stilista danese Mads Dinesen).
Insomma: Jorinde Voigt ci dice che tutto è connesso; che il grande e il piccolo sono sempre legati da un filo; che il pentagramma e i vettori di un campo di forza sono comunque linee; che l’iride dell’occhio è impressionantemente simile a una nebulosa spaziale.
Stefano Ferrari
Jorinde Voigt: Salt, Sugar, Sex
Fino al 13 marzo 2015
Lisson Gallery Milan
Via Zenale 3, Milano