Il termine “simulazione„ conosce oggi una diffusione e una fortuna che pare senza precedenti. Usata in certi contesti, è una parola che sembra aver perso quei riferimenti ambigui ed equivoci all’inganno, o anche alla menzogna (eppure è questa la prima definizione che ancora oggi tutti i dizionari riportano: un’affermazione, un atteggiamento o un comportamento che “mirano deliberatamente a ingannare„). C’è una simulazione di tipo giuridico, una simulazione dei processi produttivi, una simulazione in campo scientifico – soprattutto in matematica e in informatica – ci sono giochi di simulazione. Nelle scienze, il suo uso si è fatto così ampio e generalizzato, da indurre alcuni a parlare di un nuovo paradigma scientifico, basato su una nuova concezione dei modelli e delle teorie scientifiche. Sono gli stessi scienziati a essere più cauti di altri, su questo terreno. Ma nessuno nega che l’uso di metodi di simulazione abbia consentito un avanzamento di molte ricerche altrimenti impossibile, soprattutto nel campo dello studio dei sistemi complessi. Su questo punto mi fermo qui, per il momento. Può darsi che in futuro potremo riprendere anche questo aspetto del discorso, ma per ora, volendo focalizzare l’attenzione sulla questione della simulazione nella generazione di immagini, vorrei affrontare qualche problema sollevato da alcune nuove tecnologie di produzione di immagini sintetiche, quelle che vanno sotto il nome di Motion Capture.
Quando negli anni 1960 cominciò a maturare la possibilità di creare animazioni al computer invece che disegnate a mano, apparve chiaro ben presto che c’erano dei limiti intrinseci nella fluidità e nel realismo dei movimenti se i personaggi venivano generati in maniera completamente algoritmica. I movimenti “naturali„ di un corpo umano non erano solo il modello che doveva ispirare i movimenti di un’immagine sintetica, se questa doveva apparire realistica: erano probabilmente anche la migliore fonte di informazione diretta per un’operazione del genere. Il modo più efficace per far muovere “realisticamente„ un oggetto di computer graphics era quindi forse quello di registrare in qualche modo i movimenti di un essere vivente e tradurli nel codice informatico che generava i movimenti del personaggio sintetico. Questa idea non era affatto nuova: alcuni la fanno risalire addirittura al matematico Johann Heinrich Lambert, nel XVIII secolo, altri agli studi sul movimento di Eadweard Muybridge ed Etienne Jules Marey, alla fine dell’Ottocento. Quello che è certo è che nel 1915 il pioniere americano del cinema di animazione Max Fleischer inventò il Rotoscope, una tecnica con la quale una sequenza cinematografica ripresa dal vivo viene ridisegnata, frame dopo frame, dall’animatore. Migliorata e computerizzata, questa è la tecnica prediletta dal regista Richard Linklater, che con essa realizzò i film Waking Life nel 2001 e A Scanner Darkly nel 2006. Ma ne aveva già fatto uso Walt Disney in Biancaneve (1937), e più tardi, fra gli altri, Robert Zemeckis in Roger Rabbit (1988) e Forrest Gump (1994). Nel campo della danza, Rebecca Allen ne fece uso alla fine degli anni settanta per lo spettacolo The Catherine Wheel di Twyla Tharp.
La vera e propria motion capture (spesso abbreviata dai tecnici in mocap) nasce tra la fine degli anni 1970 e l’inizio degli ottanta, dagli studi di tracciamento ottico del corpo umano condotti dall’Architecture Machine Group del MIT e dal Computer Graphics Lab del New York Institute of Technology. Una buona definizione di motion capture può essere quella di una tecnica che “comporta la misurazione della posizione e dell’orientamento di un oggetto nello spazio fisico, e la registrazione di queste informazioni in una forma utilizzabile dal computer. Può interessare corpi umani e non umani, espressioni facciali, posizioni della telecamera e luci, e altri elementi di una scena„ (1). Queste informazioni possono essere raccolte in vario modo, dando luogo a tre tipi fondamentali di mocap: quella meccanica, quella ottica e quella elettromagnetica. Nella prima il performer indossa un esoscheletro metallico, almeno in corrispondenza delle articolazioni, dotato di sensori che registrano le rotazioni delle giunture. In quella ottica il rivestimento è una rete, più o meno fitta, di pallini riflettenti la luce, che vengono rilevati da due o più telecamere. Nella mocap elettromagnetica i sensori posti sul corpo del o della performer sono ricevitori magnetici con tre spire ortogonali in contatto con un trasmettitore statico, che registra le variazioni relative del campo magnetico (tramite la corrente generata dal movimento nelle spire dei sensori). Ognuno di questi metodi ha i suoi pro e i suoi contro. In generale i metodi magnetici sembrano essere preferiti nelle situazioni di performance dal vivo, mentre nelle produzioni cinematografiche sono di gran lunga più usati quelli ottici.
Nel cinema degli ultimi anni la motion capture e la performance capture hanno dato i risultati più spettacolari non tanto nel cinema di animazione puro, quanto nel cinema di recitazione tradizionale, permettendo di combinare in una stessa scena attori reali e personaggi sintetici che si muovono e operano con lo stesso realismo e la stessa fluidità motoria. Pensiamo a Tom Hanks che in Polar Express (2004) interpreta sette personaggi digitali tutti basati sulla sua recitazione, o all’enorme rettile femmina che seduce Beowulf nell’omonimo film (2007), personaggio sintetico “animato„ (anche se lo spettatore non se ne avvede) da Angelina Jolie. Entrambe le pellicole sono di Robert Zemeckis. L’esempio più noto (e anche, probabilmente, quello più riuscito), è quello di Gollum in Il signore degli anelli di Peter Jackson. Il segreto dell’attrazione che questo ex hobbit sedotto e corrotto dal potere dell’anello esercita sul pubblico non sta solo nelle orride fattezze del personaggio, ma anche nell’estrema verisimiglianza dei suoi movimenti, che rivelano più di quanto avrebbe consentito una recitazione “dal vivo„ o un personaggio totalmente sintetico. Questo permette di trasmettere al personaggio il carattere dell’interprete in un modo molto più intimo e personale, tanto che un critico cinematografico ha potuto parlare di uno “psichique du rôle„ contrapporto al tradizionale “phisique du rôle„ (2). Da un lato, dunque, le tecniche di motion capture sembrano segnare un ritorno del corporeo, del fisico, del biologico nel regno dell’immaterialità digitale, come a ricordarci che lo spirito e il codice non possono svincolarsi del tutto dalla materialità. Dall’altro, sul terreno più specifico del cinema, la mocap potrebbe addirittura segnare il ritorno a una recitazione molto più tradizionalmente “teatrale„ rispetto a quella “cinematografica„ usuale. La necessità di concentrarsi sulla fisicità della propria performance in modo fluido e spontaneo, la possibilità di poter recitare con continuità e non per frammenti (sarà la postproduzione che segmenterà e “monterà„ la performance dell’attore, che recita la scena almeno una volta da solo, su uno sfondo neutro come la tuta che indossa), sono elementi che sembrano riunificare, almeno sotto questo punto di vista, cinema e teatro. Non è che l’ultimo dei paradossi a cui la cultura digitale ci sta abituando.
Antonio Caronia
D’ARS year 50/nr 201/spring 2010