Quando si distingue tra il bene e il male l’arte è andata perduta. l’arte è al di là della moralità. La vostra compassione è la misura della vostra arte.
Joseph Campbell, Riflessioni sull’arte di vivere
Questa bellissima frase di Campbell mi sembra una pertinente chiave di lettura per accogliere e comprendere il corpus di opere di Franko B, esposte al PAC fino al ventotto novembre scorso.
I still love è una mostra che non lascia indifferenti; convincente al di là e oltre ogni giudizio, cosiddetto estetico. Confesso che quando ero una studentessa di storia dell’arte le performance estreme dell’artista mi disturbavano profondamente: allora, forse, non ero in possesso degli strumenti per cogliere un senso che oggi mi pare più che evidente. Penso al saggio di Hélène Cixous del 1983 Le dernier tableu ou le portrait de Dieu nel quale la scrittrice distingue le opere d’arte dalle opere d’essere. Ecco, credo che quella di Franko B sia un’opera d’essere, quella che non ha più bisogno di invocare la gloria o la sua origine magistrale, di essere firmata, di ritornare, di far ritorno per celebrare l’autore, l’opera che si depone come simbolica croce o uovo esistenziale, saturo di vita, suo malgrado.
Un artista con un forte senso del sacro, Franko B, sacro laico che emerge proprio dalla dissacrazione, dalla profanazione del corpo stesso del protagonista; corpo brutto (brutto secondo i canoni estetici imperanti e imposti dalla società dei bisogni inventati), grasso, tatuato, tagliato, violato. Corpo ferito, rappresentazione della più ampia ferita dell’esistere aperta alla nascita, che si rimargina solo quando l’ultima goccia di sangue sarà colata, nel momento del passaggio. Passaggio colto nella sua dimensione rituale, connesso al prima, fenomeno dell’esistenza come ben ci ricorda Jean Luc Nancy ne L’intruso: Isolare la morte dalla vita, impedire che l’una sia intimamente intrecciata con l’altra, che ognuna faccia intrusione nel cuore dell’altra, ecco ciò che non bisogna mai fare.
È proprio il coraggio di mettere lo spettatore di fronte a tale connessione che caratterizza l’opera di Franko B, quella capacità di restituzione del reale attraverso un’operazione violentemente poetica, che travalica le convenzioni, i tabù, le sovrastrutture per raggiungere direttamente la falda del sentire comune più arcaico, tribale, animale.
Il colore dominante è il nero, acrilico nero che avvolge il corpo dell’artista, le tele, gli oggetti, gli animali impagliati, in un unico, ineluttabile destino. Il nero uniforma: e se da un lato permea tutto di pessimismo cosmico, dall’altro insiste sulla fratellanza e la comune sostanza che così spesso si dimentica. Il nero si contrappone in tensione dialettica al bianco, con il quale l’artista ricopriva nei lavori precedenti il proprio corpo, i tatuaggi, i tagli così come i quadri, tele immacolate che poi vengono ricamate con un filo rosso di sangue, cotone e senso.
La performance Love in Times of pain (visibile su Youtube) e l’omonima installazione commuovono e colpiscono in un turbine di attrazioni e repulsioni. Franko B, nudo e interamente dipinto di nero, abbraccia un orso impagliato che ne condivide le sorti, l’aspetto, la pelle.Entrambi soggiogati all’inevitabile e irreversibile conto alla rovescia, contenitori di sangue e vita, infestati, inquinati. Svuotati e poi riempiti di viscere artificiali. Questo abbraccio esprime la com-passione; e nello stesso tempo abbraccia l’altro, il solo apparente diverso. Nell’installazione, animali impagliati di ogni specie, volpi, uccellini, cinghiali, ecc… sono riuniti in uno zoo spettrale e immanente di vita e morte. Si percorre l’opera attraversandola in silenzio e si avverte repulsione e nello stesso tempo partecipazione emotiva, pietas. È evidente l’amore che Franko B. nutre per gli animali e gli fa dichiarare: Gli uomini sono animali, ma con l’ego e gli occhiali di Gucci.
Al piano superiore si possono fruire i video delle più famose performance risalenti agli anni ’90: la loro forza è stata lungamente discussa, queste operazioni sono state collocate nell’ambito dell’Action Painting o dell’Azionismo Viennese, oppure sulla scia della Body Art più estrema.
Ma la trasversalità dell’artista e la capacità di esprimere al contempo elementi classici e avanguardia più assoluta, lo rendono difficilmente inquadrabile da un punto di vista storico-critico. Proponendosi come unico soggetto di una performance quale I miss you (dove, totalmente ricoperto di make-up bianco, sfila in passerella con due aghi da flebo aperti che causano un lento stillicidio di sangue dalle braccia) Franko B mette in scena se stesso per dare corpo ad alcuni pensieri, marginali nel sistema personificato dal pubblico che lo guarda, che non possono che creare imbarazzo se rapportati alla vita reale dove si accelera il passo, non si soccorre e non si aiuta per paura, mentre si resta ad assistere con senso di preoccupata partecipazione alla performance. È un gioco di specchi che rivela sempre l’osservatore e l’osservato; superando l’iniziale scontro, l’istintivo allontanamento da ciò che è “troppo vero”, resta solo l’incontro.
Scrive la curatrice Francesca Alfano Miglietti nell’intenso testo introduttivo al catalogo: (…) È di amore che parlano le opere di Franko B., un amore che si traduce chiaramente nell’esasperazione dei codici espressivi, che ha del mondo una visione romantica: una sorta di passaggio dal concetto di performance a quello di narrazione, gli outsider di Franko B. vogliono affermare il proprio esistere: amano e si amano(…). Ancora una volta è l’identità arte-vita ad affermarsi.
Franko B è nato a Milano nel ‘60: si trasferisce a Londra a 19 anni, si diploma al Chelsea College of Art and Design e inizia a produrre le proprie opere fin dai primi anni Novanta. Dopo un esordio molto radicale che lo ha reso noto a tutto il mondo dell’arte internazionale per l’utilizzo di sangue durante le performance live, il suo percorso si è evoluto in una serie di pitture, installazioni, sculture che affrontano il tema dei disagi collettivi, ma in un approccio molto più poetico e romantico. Le sue opere sono presenti nelle più grandi collezioni museali internazionali.
Cristina Trivellin
D’ARS year 50/nr 204/winter 2010