Clint Eastwood ha raggiunto il traguardo degli ottant’anni e, un po’ macabramente, si dice che con Hereafter abbia iniziato, come uomo e come cineasta, a riflettere riguardo alla possibilità di esistenza dell’aldilà. Che il suo ultimo lungometraggio affronti il post-morte è fuori discussione, e mai mi permetterei di negare la partecipazione di questo tema alla complessità dell’opera; però voglio osare, interrogando quest’ultima, e tentare di capire se essa esprima anche altre questioni.
La trama è imbastita da tre vicende umane: Marie, affermata giornalista francese in vacanza in Indonesia, viene travolta da uno tsunami, restando per un breve lasso temporale sulla soglia tra la vita e la morte; Marcus, dodicenne londinese, perde il fratello gemello a causa di un incidente stradale; George, operaio di San Francisco, dopo aver subito una delicata operazione al cervello riesce a comunicare con gli affetti perduti della gente.
Londra è geograficamente il luogo dove si incontrano Marie, Marcus e George, ma il motivo che avvicina i tre protagonisti, a loro insaputa, si palesa ben prima del loro raduno fisico: la volontà del fanciullo e la fattualità, per la giornalista e per l’operaio, di entrare in contatto con esseri umani biologicamente morti.
Marcus è legato in modo viscerale al gemello dipartito e, sperando di riuscire a ricontattarlo, inizia una ricerca che lo porterà al sensitivo George, un uomo che toccando le mani delle persone riesce a sentire i loro cari mancati, facendo da tramite. Marie, dopo l’esperienza di quasi-morte, viene occasionalmente sorpresa da alcune visioni ritraenti un luogo etereo abitato dalle vittime dello tsunami.
Proseguendo su questa linea di interpretazione si resterebbe all’interno dei meri fatti rappresentati e non si potrebbe aggiungere granché al susseguirsi di episodi: la pellicola come discorso sull’aldilà non si distingue per particolare originalità e non aiuta a dedurre conclusioni rilevanti, anche per i limiti posti dalla materia. Può essere interessante far notare che George vive la propria capacità di rapportarsi ai defunti come una condanna, non come un dono; e, partendo dalla definizione di Derrida secondo la quale il dono è se non si manifesta e se non viene riconosciuto come tale né dal donatore né dal donatario (in quanto la manifestazione ed il riconoscimento lo annullerebbero facendolo rientrare nello scambio e nel circolo economico) si potrebbe affermare, senza pretendere di sussumere questo caso empirico alla pura figura di pensiero del filosofo francese, che l’abilità di George è un passo verso quel dono impossibile, proprio perché egli la valuta come una condanna che gli reca dolore.
Guardando ad Hereafter come ad un testo atipico, costituito da invisibili grovigli transpersonali, il leitmotiv prende le sembianze della scrittura in senso lato, intesa come ciò che consente la permanenza di senso in assenza di soggetto, un senso incarnato che anima un campo trascendentale, scrittura come garante della presenza della persona in assenza di essa.
Tutto ciò, per esempio, può essere visto in Marcus che, prescindendo dall’inesistenza dell’organismo del gemello, ne conserva il senso in sé: l’anima resta incarnata nel corpo di Marcus e, sebbene le manchi il portatore originale, rimane viva, è presenza di un’assenza. Questa dinamica avviene anche in altri personaggi secondari che si rivolgono a George nella speranza di riavere i loro cari.
In questo processo l’operaio George è un amplificatore, ha il ruolo di sollecitare e dare voce ai sentimenti profondi dei suoi clienti, favorendo l’ascolto ed il dialogo con le alterità in essi raccolte.
Dal punto di vista concettuale la funzione di George è meno importante di quanto lo sia dal punto di vista narrativo perché, ritornando allo stesso esempio, quel che egli riporta a Marcus era già situato nel ragazzo: è un angelo che vive in lui, traccia di una relazione reale. George si limita ad ascoltare qualcuno, o qualcosa, che già esiste: lo spettatore ne è a conoscenza dato che questo qualcuno, o qualcosa, aveva dato prova di sé prima dell’incontro col sensitivo, impedendo che il dodicenne incappasse in un incidente in metropolitana.
La personalità dell’individuo non viene forgiata solamente dalle relazioni affettive più intese, come quelle tra due gemelli, ma anche da momenti drammatici e straordinari – per esempio la catastrofe che ha colpito Marie – eventi che lasciano negli occhi del singolo immagini costituenti, elementi che lo abiteranno per sempre, segni impressi nella memoria con la stessa forza con cui l’oggetto contundente colpisce la nuca della giornalista durante la tragica e spettacolare scena della catastrofe asiatica. Azzardando si può trovare nell’ultima creazione di Clint Eastwood un’impronta di decostruzione della coscienza con simultanea risalita di alterità affettive e traumatiche, indizi di un sé che poggia continuamente su altro da sé.
Il film non ha una struttura teoretica in grado di reggere sistematicamente la tesi che ho sostenuto, anche perché sarebbe un’ipotesi lontana dal cinema di Clint Eastwood: resta però la sensazione, durata per tutta la proiezione, che sia rintracciabile la volontà di rappresentare l’intensità di alcune relazioni umane come se fossero una penna che, depositando il proprio spirito da un corpo nell’altro, si impegna ad assicurare ad esso una forma di mondanità, servendosi della corporeità, non di inchiostro e fogli di carta.
La scrittura ritorna anche con la pubblicazione del libro Hereafter, scritto da Marie per testimoniare e documentare le proprie visioni: il fenomeno del ritorno nitido di queste immagini viene inciso graficamente, stampato su carta in modo che il senso eccezionale possa sopravvivere alla donna, raccontandosi materialmente, restando attivo e potendosi riprodurre nella mente vivificante di ogni nuovo lettore.
Giordano Bernacchini
D’ARS year 51/nr 205/spring 2011