Si è aperta pochi giorni fa alla Whitechapel Gallery la prima retrospettiva londinese dedicata a un grande talento del Novecento, spesso dimenticato della critica d’arte: la dadaista berlinese, pioniera del collage, Hannah Höch (1889 – 1978).
In mostra più di cento opere in prestito da collezioni internazionali ricostruiscono il percorso artistico e personale dell’artista, dalle opere giovanili, influenzate dal lavoro come modellista e dagli studi in Arti Applicate – in un’epoca in cui le Belle Arti erano considerate ancora un ambito troppo ‘ambizioso’ per una donna –, fino al lirismo astratto dei montaggi del secondo dopoguerra. Proprio a questa produzione più tarda, e meno conosciuta, è dedicata grande attenzione; una scelta curatoriale coraggiosa, purtroppo penalizzata dai vasti spazi espositivi in cui opere di piccole dimensioni come quelle della Höch, faticano a emergere, dilazionate a grandi distanze su enormi pareti bianche, in un percorso espositivo forse un po’ troppo dilatato.
Il genio ribelle di Hannah Höch sceglie presto – dagli anni Dieci – di esprimersi specificatamente attraverso il linguaggio frammentato e poliedrico del collage; immagini ritagliate da riviste, giornali, disegni, combinate al servizio di una visione del mondo beffarda, ma sensibilmente emotiva, radicata in un rigore compositivo che deriva in parte dalla frequentazione di grandi personalità quali Theo Van Doesburg, Kurt Schwitters e Moholy-Nagy. Ne risulta una satira stridente e amara che non risparmia temi controversi della vita pubblica (Staatshäupter (Heads of State), 1918–1919) e privata (le donne raffigurate nella serie From an Ethnographic Museum, in cui corpi femminili si sovrappongono a maschere e totem tribali), con particolare interesse per i concetti d’identità e genere, già vicini a tematiche del successivo pensiero femminista.
Membro del gruppo Dada berlinese, ma mai veramente integrata in una dimensione collettiva – molti dadaisti consideravano le colleghe donne soltanto come “affascinanti e talentuose amanti” [da un’intervista degli anni ‘50] –, negli anni della Seconda Guerra Mondiale decide di ritirarsi nella periferia di Berlino.
Rimossa dalla scena artistica mondiale (ormai stabilitasi dall’altra parte dell’oceano), censurata dai nazisti poiché “degenerata”, Höch può sviluppare uno stile nuovo che dal secondo dopoguerra in poi muove chiaramente verso l’astrattismo. Attingendo comunque dai temi della vita quotidiana, con chiari rimandi al consumismo e riferimenti alla cultura popolare, i collage di questi anni si fanno più esplosivi nei colori, ricercati esteticamente in un continuo scambio tra armonia e composizione – Raumfahrt (Space Travel) (1956) e Um Einen Roten Mund (Around a Red Mouth) (1967) ne sono chiari esempi.
Ciò che colpisce di questa retrospettiva è la freschezza di un’arte che a distanza di decenni non appare stanca o sorpassata, ma anzi apre al dialogo con la contemporaneità e ne nutre l’immaginario. Nell’epoca del fotomontaggio digitale, della continua manipolazione d’immagini e d’intenti, un’esperienza come quella di Hannah Höch ci riporta alle origini dello spirito d’artista e rimarca l’importanza di un pubblico attivo, capace di stupirsi ma anche di ragionare.
Cristiana Bedei
Whitechapel Gallery, Londra
15 Gennaio – 23 Marzo 2014