Be part of something bigger: con questo slogan il teatro Hau di Berlino ha festeggiato lo scorso weekend (20-21-22 novembre) il ventesimo anno di attività dei Gob Squad rendendo omaggio all’arte dei collettivi. Un programma di tre giorni con performance, video, film, talks, musica e brindisi condivisi. Il gruppo teatrale anglo-tedesco, che a Berlino è di casa, ha ricapitolato la sua carriera in prospettiva storica e autoriflessiva, raccogliendo attorno a sé collaboratori, critici e, soprattutto, il pubblico, elemento “scatenante” di ogni spettacolo.
Per comprendere il percorso dei Gob Squad, così come di altri compagni di strada tra cui i Rimini Protokoll e le She She Pop, occorre fare un passo indietro nella scena tedesca dei primi anni Novanta, quando fiorisce il dibattito sul teatro postdrammatico che troverà poi un resoconto teorico nell’omonimo libro di Hans-Thies Lehmann (1999). Guardando alle esperienze degli anni Sessanta, come accade in parallelo nelle arti visive, un certo teatro sperimentale rifiuta la testualità classica e rimette al centro la partecipazione del pubblico, il discorso identitario, la materialità performativa con l’intento di scardinare determinate convenzioni narrative. Il collettivo diventa una forma plurale di produzione artistica che, in un primo tempo, viene accolta con grande scetticismo. Accusate di voler riproporre illusioni anacronistiche nel momento in cui, dopo la caduta del muro, tutti salutano la fine delle ideologie, queste ricerche restano marginali finché non è addirittura l’evoluzione sociale e tecnologica a spingere il corso delle cose proprio nella direzione da loro presagita.
Le performance dei Gob Squad avvengono spesso in contesti urbani, utilizzando un ampio spettro di media, e mettono in discussione la funzione dello spettatore, il rapporto tra realtà e finzione, tra banalità e utopia. Il collettivo non viene concepito come spazio ideale di uguaglianza simmetrica che aspira a migliorare il mondo, ma diventa un modo di lavorare che si oppone al teatro istituzionale, alla sua divisione dei compiti e al suo modo di gestire la produzione stessa. In un’epoca di grande precarietà e tagli al settore, come raccontare dunque la biografia di queste esperienze che sono passate attraverso due decenni di cambiamenti radicali?
Con We Are Gob Squad And So Are You, la parola viene data ad alcune persone del pubblico che ripetono frammenti di storie suggerite in cuffia, intervallate da materiale filmato, in un tentativo dislocato di plot autobiografico del gruppo. La relazione con il fuori è infatti fondamentale per l’identità del collettivo, ben lontana dall’essere un’isola comunitaria rassicurante. Al contrario il privato (interno) e l’altro (esterno) fanno continue incursioni, destabilizzano, interrogano la scena.
In quanto luogo di continue tensioni e trasformazioni, s’instaura un rapporto particolare con il tempo, scandito da momenti ridondanti, pause, rallentamenti. Non si opera sotto un regime di efficienza come nei gruppi di lavoro post-fordisti: qui la cooperazione è al servizio di un progetto/scopo assegnato dall’alto con scadenze ben precise, invece nel collettivo è il riconoscimento reciproco a garantire una continuità di fondo e uno stato di fiducia per cui qualcosa, prima o poi, succederà. Questo punto ha particolarmente animato l’ultima serata dell’evento, durante il confronto teorico con studiosi di diverse discipline, tra cui anche il sociologo Richard Sennett in video-intervista sulle politiche della collaborazione. Lo stesso modello dei network, così fortunato nella produzione artistica odierna, non è assimilabile in toto alla forma del collettivo. La pressione a raccogliere continuamente nuovi contatti, ad essere presente ovunque, a commercializzarsi su più livelli non incoraggia certi percorsi di ricerca, anzi rischia di prosciugarne le energie. Nonostante ciò qualsiasi prassi creativa è stata profondamente influenzata dalle modalità post-fordiste di lavoro, che trovano nel formato del “progetto” una sorta di cornice di scambio agile, solo apparentemente flessibile e neutrale. Lavorare project-based, a tempo, districarsi tra bandi e concorsi, sono situazioni ormai ordinarie ma non per questo assolute; sono anzi fortemente storiche, per non dire recenti, poiché legate a un preciso momento dello sviluppo capitalistico e come tali possono uscire dal “regno del già dato” per divenire oggetto di un esercizio critico e pratico più ampio.
Clara Carpanini