Iniziare un commento alla lettura di un saggio criticando il titolo italiano rispetto a quello originale – Network Without a Cause – è sempre sgradevole. Eppure si deve dire. Generico e fuorviante, un titolo come Ossessioni Collettive potrebbe riguardare sia la storia del calcio che le paure più comuni. Errore della casa editrice Egea – Università Bocconi Editore, compensata però dalla scelta di un traduttore di lungo corso come Bernardo Parrella.
Network Without a Cause invece riguarda l’impatto sociale dei social network: Facebook, Twitter, Flickr, LinkedIn, Google, etc. Il saggio parte da una domanda specifica: che cosa è il “sociale” nei social media? Geert Lovink, una delle menti pensanti più brillanti e originali della rete, legge in chiave sociologica il ruolo dominante dei media platform strutturati in senso centralizzato e di come stanno regolando Internet dall’interno, quindi molta parte della nostra vita quotidiana. Tutto il suo pensiero gira attorno alla constatazione che “Agli inizi era Internet che cambiava il mondo. Oggi è il mondo che sta cambiando Internet”.
Libro interessantissimo fitto di argomenti, impossibile darne una descrizione accurata senza sbrodolare in un altro saggio di risposta, perché ogni frase scritta da Lovink ne stimola un’altra nel lettore. Quindi la scelta di questa recensione cadrà sul mio gusto personale, su ciò che mi ha ispirato maggiormente. Il consiglio è comunque di leggerlo tutto senza saltare la bella prefazione di Vito Campanelli, che ne riassume i punti di forza. Tematiche che, benché tocchino argomenti esaustivi come quello della sfera pubblica rispetto a quella privata e della privacy, non sono -secondo Lovink- ancora superate e pertanto trattate approfonditamente nel libro.
L’analisi parte dal passaggio della fine dell’uso del computer/scrivania e all’impatto dei device mobili, che hanno decretato la fine di Internet come esperienza sociale, così come è stata creata e vissuta nella prima fase. Come ben sa chi l’ha vissuta era utopica, libera, un momento di frizzante consapevolezza che qualcosa di totalmente nuovo stava nascendo: le menti creative ne erano iper-stimolate. Cioè quell’era pionieristica della creatività artistica legata a Internet è paragonabile, nei modi di sviluppo, alla scena underground dei film makers a New York negli anni 60 e 70, dove tutti facevano tutto. Come nei primi anni della rete ognuno era artista, programmatore, curatore, critico, dilettante, imparando facendo, sperimentando senza sapere dove ci si sarebbe diretti: una scena artistica caratterizzata dalla spontaneità che i newmedia permettevano. [1]
Esaurita quella spinta iniziale delle cyber culture degli anni 90, i new media continuano a incontrarsi e scontrarsi con la società strutturata: aziende, governi, istituzioni della conoscenza e dell’educazione, politica. Tutto ciò è caratterizzato da un aumento esponenziale del controllo che avviene, come nota Lovink, nei giardini recintati di Google, Twitter, Facebook. Sviluppatesi dopo l’11 settembre, i giardini protetti 2.0 sono stati creati ad hoc. Presi d’assalto a causa della propaganda governativa del terrore che divulgava un’immagine negativa di Internet, abitato da hacker cattivi, che veicolava pornografia e virus, luogo di furti delle nostre informazioni da cui proteggersi. Eppure gli utenti stessi dei social network senza esserne consapevoli, sono caduti nella stessa trappola. Spazi sociali dove non è più necessario proteggere quelle informazioni, perché sono fornite spontaneamente, affidandole alle mani dei pretoriani delle corporation, che mungono senza dirlo gli amici degli amici degli amici. Gabbiette che fruttano oro a chi le gestisce.
I social network sono una catena di individui sconosciuti tra loro, a cui non è permesso nemmeno esprimere un vero dibattito su qualunque argomento, consentendo il classico I like, appiattendo ogni possibile confronto critico, livellando ancor più della televisione la vita delle persone e non fornendo nessuno strumento che possa avere un reale impatto sulla vita politica. Lovink insiste sull’inutilità sociale dei social network, perché manca una causa comune. Egli analizza la totale perdita di tempo nell’usare strumenti che definisce industria delle news: mezzi che consentono aggiornamenti in tempo reale, ma senza possedere un valore specifico, come Twitter, che ha creato un flusso di giornalismo senza approfondimento e indagine a cui non si presta più attenzione, perchè totalmente assuefatti.
Il testo sposta anche il focus sulle risposte artistiche che esplorano il rapporto tra politica ed estetica. Se sono i social network centralizzati a dominare la rete, Lovink vuole anche dare voce ai network alternativi diffusi; in questa direzione ha fondato il gruppo di lavoro UnlikeUs, insieme a Korinna Patelis, aperto a chiunque voglia partecipare.
Risulta evidente che, sia che venga riconosciuta oppure no, siamo nel bel mezzo della internet bubble 2.0: siamo tutti d’accordo che i social media dominano l’uso di Internet e dei mobile media, come tablet e smart phone. Di fatto questo gruppo di lavoro è già un network con gli scopi che Lovink descrive nel libro: creare una rete di ricerca di artisti, designer, studiosi, attivisti e programmatori che lavorano sulle alternative nei social media gestiti dalle corporation, quindi centralizzate. Il teorico punta il dito sulla diffusione di un ulteriore sviluppo e proliferazione di social network decentrati, -questo è lo scopo di Unlike Us- ma in fondo contraddice in un certo modo se stesso cercandone un’alternativa decentrata e decretandone allo stesso tempo la morte. La riflessione di Lovink sullo sviluppo dei media digitali 2.0 porta a considerarli in fase di decadimento e lenta scomparsa. Come lo stesso autore ha dichiarato: “E’ ora di superare il Web 2.0, ha fatto il suo corso. Le masse che vi partecipano si sono trovate in una situazione piena di tensione e di posizioni conflittuali per la classe dei pragmatici che ha supervisionato la formazione di Internet dall’inizio. Stanno aumentando le critiche alla politica sulla privacydi Google e di Facebook. I conflitti sulla neutralità della Rete e su Wikileaks dimostrano che i giorni senza frizioni della coalizione «multi-stakeholder» per la governance, che ha tenuto a bada finora i governi e le telecom attraverso le riunioni del «Wsis» (World Summit on the Information Society), sono ormai finiti. E’ scoppiata una nuova bolla, ma questa volta è quella del modello del consenso libertario. I legislatori di Internet a favore del mondo degli affari e degli interventi di Stato si stanno muovendo su posizioni difensive. Adesso che la società ha bocciato la loro etica di libertà, la nozione di Internet come di una sfera eccezionale al di là delle regole, evapora. E’ il momento di decidere: da che parte state?». [2]
I capitoli più freschi sono nella prima parte e nella parte finale dedicata a molti esempi di risposte degli artisti, come Video Vortex e l’attivismo in rete, mentre i capitoli centrali sono un rimescolamento di tematiche già affrontate nei saggi precedenti come My First Recession. Critical Internet Culture in Transition , Uncanny Networks: Dialogues With the Virtual Intelligentsia.
Pur non assumendo mai posizioni estreme, condivise con la ricercatrice Jodi Dean, né apocalittiche né integrate, si differenzia enormemente da altri studiosi come Henry Jenkins. Ottimista per antonomasia, afferma che le infrastrutture digitali giocano un ruolo chiave, perché non solo supportano la sfera pubblica, ma rinforzano il valore dei luoghi di aggregazione (dal bar alla sala da bowling), ma è un’analisi che manca di visione critica. Piuttosto limitata all’osservazione della presenza mediale, Jenkins esplora le pratiche di circolazione che espandono lo spazio della città e creano nuovi forti link tra diversi gruppi e sfere sociali ma affrontando il tema da totale ottimista liberal-consumista. Ma i tempi sono cambiati ed è il momento del network con uno scopo.
Voi quale avete?
D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012
[1] Questa riflessione è frutto di una scambio di e.mail con Patrick Lichty commentando il film Blank City di Celine Danhier e la scena della newmedia art dei primi anni 90 (02/05. 07.2012).
[2] Anna Masera, Geert Lovink: “Ormai è il mondo che sta cambiando Internet” ,Intervista all’autore di “Ossessioni Collettive” http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=2&ID_articolo=1352&ID_sezione=3 (ultima visita 05.07.2012)