Panorama è il titolo della retrospettiva di Francesco Jodice (Napoli, 1967) a cura di Francesco Zanot presso Camera – Centro Italiano per la Fotografia a Torino: in mostra sei progetti che includono fotografie, video e installazioni realizzate in vent’anni di carriera, con un allestimento che pone al centro i processi che precedono la realizzazione delle opere
Nella sua pratica artistica Francesco Jodice cerca di restituire un’immagine il più possibile esaustiva e puntuale dello scenario geopolitico e delle sue trasformazioni sociali ed urbanistiche; in questo senso i suoi progetti si possono considerare panorami. Per raccontare questa complessità, la fotografia nella sua forma tradizionale non è sufficiente e si scontra con un suo limite, ovvero quello di non essere mai didascalica ed emblematica, ma sempre parziale e frammentaria. È impossibile descrivere il mondo in una sola immagine. Per questo i progetti di Jodice sono mosaici fatti di stratificazioni e accumuli, caratterizzati da uno sguardo interdisciplinare che include topografia, fotografia umanistica, arte concettuale, montaggio e scrittura; quasi mai tali ricerche sono totalmente risolte o concluse, come ad esempio What we want, un atlante fotografico sull’evoluzione del paesaggio sociale, iniziato nel 1996 e ancora in corso. È un processo costantemente in divenire, non definibile una volta per tutte e questo si riflette sulla forma stessa della mostra: non ha una narrazione lineare o un percorso stabilito a priori, ma è fatta di continue deviazioni e differenti modalità di fruizione .
L’esposizione, che tiene conto delle specificità degli spazi di Camera, crea un dialogo tra i sei lavori esposti e la fase progettuale che precede la realizzazione delle opere. Nel corridoio vi è un tavolo di quaranta metri e diverse altezze con alcuni libri e fumetti che lo hanno ispirato, foto di backstage, provini, film. Questo materiale (che non coincide con quello dei progetti esposti nelle sale, ma include altri lavori come Hikikomori, Prado, A night in the drive in, Babel…) è disponibile per essere consultato, studiato e vissuto; è un invito a una partecipazione più attiva e diretta dello spettatore.
Jodice svela la sua metodologia e la sua ricerca, non certo vissuta come elemento di secondaria importanza rispetto al lavoro finito, pronto per essere incorniciato ed esposto. Non è infatti un caso che le fotografie tradizionalmente intese siano pochissime: solo un’immagine di grande formato tratta dalla serie What we want, Capri e la quadreria dei Ritratti di Classe. Eppure le fotografie sono numerosissime e presenti in forme tra loro differenti: foto-animazioni, film, libri fotografici, provini. Questa sovrabbondanza rende la mostra una grande macchina della visione, contro l’idea che la fotografia si risolva in pochi secondi. È una sfida al visitatore che si trova di fronte a tantissimo materiale, più di quanto possa essere fruito durante il tempo di visita.
Solo i tre film della serie Citytellers, ovvero Saõ Paulo (2006), Aral (2010) e Dubai (2010), durano in totale tre ore. La video-installazione Secret Traces (1997-2007), un’indagine sul senso della cittadinanza, è invece costituita da diverse serie di pedinamenti fotografici composti da seicento scatti ciascuna e montati insieme con la tecnica della foto-animazione. O ancora, The Room (2009-2016) è una stanza interamente ricoperta da pagine di quotidiani cancellate da uno strato di vernice nera, delle quali risulta leggibile solo una frase, che creano una sorta di istantanea – non molto rassicurante – del nostro Paese.
Il collettivo Multiplicity nasce alla fine degli anni ’90 proprio perché artisti, architetti, urbanisti, filmmakers e filosofi si rendono conto che il proprio codice non basta a restituire ciò che osservano ma che forse è necessaria una pluralità di voci. Nasce così Solid Sea (2002), il progetto realizzato per Documenta 11 ed esposto negli spazi di Camera, oggi più che mai rappresentativo della nostra incapacità di occidentali di accettare la condizione di disumanità che si sta verificando intorno a noi e la nostra incapacità di affrontare i fenomeni migratori, che sono complessi e difficilmente circoscrivibili a una causa univoca. La notte del 26 dicembre 1996 una nave affonda al largo delle coste della Sicilia, provocando la morte di 283 cingalesi. Per anni i governi della costa del Mediterraneo rifiutano di dire che questo sia mai accaduto. E in una situazione di crescente disinformazione e censura, l’arte è una pratica civile necessaria per opporsi alla sparizione.
Eleonora Roaro
Francesco Jodice. Panorama
a cura di Francesco Zanot
CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, Torino
Dall’11 maggio al 14 agosto 2016