La bravura di Bennett Miller nel rendere l’ambivalenza e l’ambiguità di certe relazioni, il loro sfuggire alla parola, si era già palesata con lo straordinario lungometraggio d’esordio, Capote (2005). È da questi luoghi dell’umano che germina Foxcatcher, per quanto il soggetto sportivo del film parrebbe ammiccare a Moneyball (2011), l’altra opera del cineasta newyorkese.
Subito identificabile per l’uso calligrafico del terzetto dettaglio-campo lungo-campo lunghissimo, un walzer di montaggio che crea pattern narrativi di quadri quasi sempre fissi, Bennett Miller dirige per sottrazione la vicenda dei fratelli Dave e Mark Schultz, campioni olimpici di lotta libera, chiamati dal magnate americano John du Pont per allenarsi in Pennsylvania, nella sua tenuta (la Foxcatcher Farm), in vista degli imminenti Mondiali e delle Olimpiadi del 1988.
C’è molta fisicità in Foxcatcher, nei fratelli Schultz, il cui rapporto viene raccontato soprattutto con il linguaggio dei corpi, mai spettacolarizzati. Una fratellanza verbalmente insondabile che vede da una parte Dave (Mark Ruffalo) allenare il fratello minore con prese che paiono abbracci, carezze; dall’altra Mark (Channing Tatum) incapace di interagire se non con la sua danza scimmiesca, bloccando Dave con leve, amandolo e odiandolo sulle vibrazioni di un conflitto per un padre e un’educazione affettiva mai avuti (e che Dave ha provato a sostituire).
Dalla fisicità della lotta come arte intimista, agganciata a relazioni intelligibili solo nella loro superficie muscolare, si passa alla fisicità asimmetrica di Mark nei confronti del milionario John du Pont (Steve Carell), i cui disturbi psicologici vanno di pari passo con il discutibile atletismo. Qui però il denaro ribalta la relazione, esercita una forza astratta che, nei fatti, piega, umilia e sveglia di notte il possente Mark, ma soprattutto lo compra come figlio, allievo, giocattolo. Le psicosi di du Pont sono i turbamenti degli Stati Uniti – e non solo –, sono il capitalismo sfrenato, e Mark la parte più sana – almeno apparentemente – tenuta sotto tiro, a capo chino, posseduta e lasciata alla stadio infantile.
In elicottero, durante la preparazione del discorso che Mark terrà in onore del milionario, du Pont e il suo campione sono ventriloquo e pupazzo. “Ornitologo, filatelico, filantropo…”, fagocitato dal mentore, Mark deve ripetere meccanicamente la descrizione prescritta; la voce di du Pont, robotizzata dal microfono, si sovrappone ripetutamente e con violenza a quella dell’atleta, accentuando la spersonalizzazione e la disumanità della scena, che arriva come governata da dialoghi provenienti da altri mondi.
Ci si potrebbe soffermare sul timore che du Pont ha dell’anziana madre (Vanessa Redgrave), oppure sull’opposizione risolta tra la famiglia di Dave e l’invitante e lussuosa tenuta. Questi e altri spunti risultano però secondari davanti all’evidenza che Foxcatcher è un’opera in cui per tutta la durata si contraggono i muscoli e si contrae la pellicola desaturata, i cui colori sono confluiti insieme a tutto il resto in quel fine apparato circolatorio che è la trama di legami tra i tre protagonisti. Un triangolo di significanti orchestrato in modo da affettare le relazioni e notare che, per modificarle o cambiarne il segno da positivo a negativo, alcuni possono ruotare di poco la sezione ottenuta, altri muovono invece tutto quel che vi sta intorno.
Giordano Bernacchini