L’olandese Fiona Tan presenta al Museo MAXXI di Roma un gruppo di lavori video, una piccola retrospettiva di un percorso che inizia negli anni novanta dal titolo complessivo Inventory. I punti toccati dal suo lavoro sono numerosi ma riconducibili ad alcune idee trainanti: il controllo sociale, i contrasti fra culture, le differenze fra memorie e storie.
Tan sembra affascinata dall’accumulo d’immagini e di dati e il suo linguaggio video è volutamente non/determinato, collocato dentro quella volontà di distacco emotivo che coinvolge molti video oggi. Questa dimensione è in qualche modo raggelata, distanziata, rifiuta il coinvolgimento e l’emozione. Si potrebbe definire questa forma come una “trasparenza fredda”, una delle caratteristiche tipiche dei linguaggi di questo inizio secolo. Nel film di Fantascienza Oblivion la casa di un futuro postatomico è rappresentata come un non luogo (secondo la categoria critica di Marc Augé), un luogo della trasparenza estrema che sembra annullare i contenuti umani e psicologici che una casa dovrebbe contenere. Oppure come i grattacieli di Shanghai nell’ultimo film di James Bond, dove la trasparenza dell’edificio diventa la copertura migliore per azioni estreme come l’intrigo politico. Il video contemporaneo ha scelto la dimensione “cool” della fredda foto documentaria o del documento televisivo. Tutto è rappresentato e niente è allo scoperto. Il “Mistero Freddo” che è la realtà oggi viene raffigurato secondo i suoi stereotipi. In Inventory il Museo è quello per eccellenza dell’inglese John Soane e il video indaga in maniera ambigua sulla valenza del museo e sulla conservazione delle immagini. Ambigua perché molti dei video di Tan sono definiti proprio in termini di conservazione delle memorie più che in forma direttamente narrativo/espressiva. La famosa casa/museo dell’architetto neoclassico John Soane viene sezionata e suddivisa in una serie di piccoli video che vengono proiettati l’uno a fianco all’altro, come un collage di vecchie foto. John Soane è emblematico nella sua passione per la storia delle immagini classiche; questa idolatria del passato e delle immagini viene guardata con distacco dalla Tan, forse con ironia. Disorient illustra i processi della memoria dell’oriente e la sua odierna convulsa trasformazione verso la modernità, contrapponendo un immaginario museo di Marco Polo (l’Occidente) alla confusa ma vertiginosa corsa del nuovo oriente verso l’industrializzazione e la modernità. Folle ancora antiche si immaginano già coinvolte in processi moderni, come di fatto avviene in Cina, in India e in gran parte dell’estremo oriente.
Cloud Island rappresenta i danni provocati da questa corsa verso la modernità. Nella piccola isola giapponese di Inujima si è consumato nei secoli il passaggio da un’economia di pesca e agricoltura a un’economia industriale, raffinerie di rame, miniere di minerali e altro. Oggi l’isola, sfruttata, esaurita e abbandonata dalle industrie, perde infine la propria funzione nei pochi e anziani abitanti rimasti. L’isola muore, sembra suggerire il video, a causa di una distorsione d’uso che ne ha tradito la vocazione.
A metà strada fra la dimensione della memoria e la dimensione del controllo sociale di Correction si colloca un intervento inatteso, alcune incisioni di Piranesi della serie delle Prigioni. A distanza di un decennio fra una prima serie e la seconda, le famosissime stampe passano da un sottile grafismo a un forte e più drammatico contrasto pieno di ombre. A questo mutamento dell’esperienza sembra fare riferimento il lavoro dell’artista, indicando Piranesi come modello di creatività. Infine (ma in realtà è un inizio) Correction del 2004, sicuramente il lavoro più forte della mostra e forse dell’opera complessiva dell’artista. Qui l’uso della cool distance è molto efficace sulla bell’idea di partenza: rovesciare il progetto illuminista (ma spaventosamente conservatore) del Panopticon, progetto settecentesco di Jeremy Bentham, un’architettura carceraria che permette ai custodi una visione globale dello spazio di contenzione e di conseguenza un controllo carcerario totale. Rovesciare questa logica significa quindi sottoporre il pubblico allo sguardo dei carcerati, mutando la logica del rapporto fra osservatore e osservato.
Nell’installazione gli spettatori sono seduti in un cerchio di sedili e sono circondati da schermi su cui sono proiettati i carcerati di alcune prigioni americane. In questo ribaltamento si inseriscono una serie di varianti: il sorvegliato osserva chi l’osserva, sorveglia chi lo sorveglia. I carcerati ci guardano immobili, anzi immobilizzati in una posa frontale, lo sguardo indecifrabile, uno sguardo che si mette su un piano d’uguaglianza con lo spettatore. La situazione ricorda anche altri lavori, i lavori dell’ultimo Bill Viola, con i suoi revenants che oltrepassano il confine fra vita e morte guardandoci fissamente, o l’installazione Tall Ships di Gary Hill, in cui ugualmente la comparsa e lo sguardo degli altri provoca silenziosi cortocircuiti. Ma forse stabilire una situazione di ribaltamento di ruolo può creare elementi svianti o comunque ampliare le intenzioni iniziali. La dinamica fra pubblico/spettatore, fra osservante e osservato non si ricrea completamente, perchè il gioco dei rispecchiamenti si basa comunque su una realtà di mediazione che è il video. Noi osserviamo il video e i suoi contenuti, osserviamo un linguaggio che ci osserva.
Lorenzo Taiuti
D’ARS year 53/nr 214/summer 2013