Il mese delle sfilate per l’estate 2017 appena chiuso lascia come non mai la sensazione che la frammentazione – cifra dell’attuale offerta culturale – abbia condizionato la creatività dei designer, tanto da rendere vani i tentativi di estrapolarne tendenze “macro”, la “moda” appunto, intesa in senso letterale.
Ispirazioni molteplici, determinate da heritage dei marchi, target e obiettivi commerciali e, naturalmente, suggestioni dovute ai creativi. Alla base di ogni collezione ci sono concept che si traducono in colori, linee, volumi e dettagli, temi estremamente vari fra i quali quello dell’arte contemporanea è diventato talmente presente da legittimare il dubbio che non si tratti più di due mondi distinti.
La contaminazione fra arte e moda, che ora è diventata imprescindibile, segna il XX secolo a partire dai primi rapporti fra creatori e artisti, come fra Elsa Schiaparelli e i Surrealisti: corrispondenze sporadiche però, con una pausa evidente durante i reazionari anni ’50. Con la Pop Art cambia tutto e con la progressiva industrializzazione della moda – dall’atelier al ready to wear- i due linguaggi si attraggono inevitabilmente: Saint Laurent “riproduce” Mondrian e Picasso sugli abiti, collabora con Claude e François-Xavier Lalanne mentre Warhol continua la sua attività di illustratore di moda anche dopo il 1962 (anno che segna, per convenzione, la nascita della Pop Art). Anzi l’ambito della moda diventa lo strumento ideale per lo sviluppo di relazioni e amicizie che consentono a Warhol di estendere il suo lavoro di artista, oltre a fargli assimilare al meglio le strategie della comunicazione e il ruolo dei media nella costruzione dell’immaginario collettivo.
Anche se alcune avanguardie artistiche implicano un rapporto critico con il presente e con la civiltà dei consumi, e la moda è vista come un’estensione de La società dello spettacolo (Guy Debord, 1967) o un adeguamento mimetico a quel presente verso il quale occorre “essere rivoluzionari”, si elaborano autonomamente dei linguaggi non proprio affini ma con parecchi punti in comune: la performance, ad esempio, è intrinsecamente effimera quanto lo è il consumo immediato a cui si associa la moda.
Gli anni ’80 riannodano i fili e tutto si amalgama in un consenso reciproco di autostima alle stelle e di sicurezza di andare oltre gli steccati. L’arte contemporanea non è più soltanto un’alternativa politica ma piuttosto uno specchio della soggettività determinata dalla società dei consumi e la moda sperimenta via via incursioni in territori di soggettività distorta (sesso, dipendenze, morte, trasformazione del corpo e catastrofe) con fotografi come Corinne Day e creatori come Martin Margiela, Rei Kawakubo, Alexander McQueen e Hussein Chalayan (questi ultimi non solo anagraficamente vicini agli Young British Artists degli anni ’90).
Di più di vent’anni di innumerevoli ibridazioni ricordo la femminilità imperfetta nelle fotografie della campagna di Cindy Sherman per Comme des Garçons (1994), l’omaggio-collaborazione di Richard Prince e Marc Jacobs per Louis Vuitton (2007), un brand che attraverso il rapporto continuativo con artisti (Daniel Buren, Takashi Murakami, Yayoy Kusami ) ha creato un prologo all’apertura della propria Fondation.
E ancora le collezioni a “quattro mani” di Raf Simons e Sterling Ruby o le cartelle stampa alle sfilate di Alexander McQueen, nelle quali l’elenco degli artisti ispiratori era un veicolo per una successiva ricerca, come nella celeberrima Horn of Plenty (2009), a partire dall’invito con fotografia di Hendrik Kerstens fino agli espliciti riferimenti a Leigh Bowery e Matthew Barney (un artista che, come Vanessa Beecroft, Jack Pierson, Sylvie Fleury, Marie Ange Guilleminot, alla moda si ispira spesso).
La contaminazione è reciproca.
Se la moda è necessariamente una sintesi del contemporaneo in quanto catalizzatore di tendenze autorigenerantesi, è naturale che l’arte, nella propria rappresentazione della realtà, ne assorba degli elementi. L’immaginario moda, sia nella “forma design” che nella “forma mediale” esercita un fascino notevole, e un fattore irresistibile di questa fascinazione sta nell’estrema volatilità del prodotto moda, hic et nunc alla massima potenza che si traduce in una “certificazione di contemporaneità” per qualsiasi cosa ne sia contaminata.
Per contro, sul versante moda, oltre a un inesauribile bacino ispirativo, c’è l’occasione di una legittimazione da parte di una “sorella maggiore”. Sorella maggiore che però può subire una vera e propria cannibalizzazione, quando diventa plausibile ipotizzare un’influenza latente della moda e delle sue modalità espressive nelle opere dei Robert Longo, Nan Goldin, o Larry Clark, o un’influenza più palese come in Flow my tears I di Mai-Thu Perrett, un’opera che include una replica di un abito di Schiaparelli degli anni ’30.
Ma c’è anche un legame tra arte e moda che si snoda lungo i fili (in questo caso letterali) del recupero di tecniche artigianali “marginali” (esercitate tradizionalmente da donne), che attiene al recupero dell’artigianato da parte di artisti provenienti essi stessi da territori di “margine”: luoghi di conflitto geopolitico o etnico, come per artisti della ex-Jugoslavia (Maja Bajevic), per i quali utilizzare tali tecniche significa anche farsi carico di una eredità culturale, o luoghi di marginalità e conflitto interiore; come è per Tracey Emin, le cui tovaglie e abbozzi di ricamo fanno da sfondo a un percorso privato. Sullo stesso piano gli impeccabili lavori a ricamo di due artisti italiani, Maurizio Vetrugno e Francesco Vezzoli, o la smisurata esposizione di perline e bijoux di Mike Kelly. E la passerella di tappeti che riproducono fotografie astratte della più recente sfilata di Sarah Burton per Alexander McQueen, tappeti realizzati con la tecnica Taatit delle isole Shetland.
Claudia Vanti