Avevamo il dubbio che Skianto partisse da Festino di Emma Dante. Storie simili: esistenze squilibrate, allo sbando, nel giorno del loro compleanno. La palestra in cui è chiuso Filippo Timi è la stanza del Festino. Ma quella palestra troppo piccola del personaggio costruito dall’attore Timi è una scatola vera. Spazio dei frammenti, delle schegge impazzite di un dolore che diventa ricordi, tasselli di un mosaico rotto per sempre perché troppo fragile per reggere lo skianto col mondo. Così lo spettacolo che al Teatro Nuovo di Verona ha aperto la rassegna L’altro teatro, ha la sintassi costruita per aggiustamenti casuali, toppe, flussi di un dettato automatico che travolge il pubblico con un fiotto di perline, esperienze, tarpate nel chiuso di una scatola cranica sigillata. Diari di infanzia, ma non è la narrazione di Davide Enia. Anzi. All’attore umbro non interessa raccontare, né narrare storie. Interessa la follia della verità. Le sue esplosioni figurative, i suoi rimandi al postmoderno (Damien Hirst, Gilbert and George, Matthew Barney) sono urgenze, scoppi di poesia. Solo come un monologante s’aggira sul campo da palla canestro, agita pugni con guantoni da Hulk, ha una cyclette su cui pedalare tra alti e bassi, poesia della solitudine e oscenità del nulla. Atmosfere anni ottanta che evaporano tra le luci di uno strobo e le frange di un vestito da cowboy.
Anni del vuoto cosmico in cui rimbalzano i desideri dell’attore che ora è pensiero, ora è corpo ridicolo, che fa danzare un metro da sarta dalla bocca come avrà visto fare da un malato vero. Corpo sghembo e rotto come il teatro Valdoca ha insegnato. Con Timi c’è Andrea Di Donna e la sua chitarra che urla una disperazione imbottita di lustrini e paillettes. E anche il bis che concedono è una cometa di una luce che rifulge tristezza. La malinconia del cortocircuito tra il mondo esterno che vuole curare l’autismo e un cuore ferito che non vuole essere analizzato, letto. Con la sua frangetta da Carmelo Bene (sarcasticamente preso in giro) Timi ci dice che osceno è andare oltre la scena, oltre la finzione esasperando la scena stessa fino al paradosso per svelarci la sincerità del rapporto attore-personaggio. Spingere fino all’esplosione dei linguaggi: Timi urla, canta, sporca il recitato di dialetto, incastra pezzi con la fatica dell’handicappato che sa far solo scarabocchi su un testo (dello stesso Timi) estremamente letterario.
In questo colorato pastiche di fine millennio si frulla tutto. Silenzio da assordare di parole. Distrutte anche le allegorie. Inutile sforzarsi di capire il senso di una spot su un prodotto Panda o un video su una serie di gattini proiettato su un velare. La mente del protagonista non ha sinapsi collegate. I pensieri son carte di caramelle, scartate e scarti, imprecazioni (ancora una volta come il Coro delle bestemmiatrici della Valdoca) che non scalfiscono il solido nulla. La magia non c’è più, non serve la bacchetta magica dorata; Timi entra ed esce dalle regole del gioco perché il gioco è rotto. In mutande e canottiera dichiara di essere Filippo Timi: un Pinocchio che non è né burattino né bambino, ma solo un pezzo di legno purtroppo pensante.
Simone Azzoni
Teatro Nuovo di Verona nel cartellone L’altro teatro
di e con Filippo Timi
chitarra Andrea Di Donna
Repliche: dal 20 novembre al 7 dicembre al Teatro Franco Parenti di Milano