Impagabile performance di Julianne Moore per un dramma dalle tinte forti e dalle emozioni che sono ancora più forti: questo è Still Alice, lungometraggio in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma – in corso all’Auditorium Parco della Musica fino al 25 ottobre (vedi le altre recensioni di Last Summer, Trash, I milionari) – dove è stato presentato venerdì 17 con plauso di pubblico e critica, alla presenza in sala dei distributori Lapo Elkann, Ginevra Elkann e Francesco Melzi d’Eril della Good Films. I registi Wash Westmoreland e Richard Glatzer descrivono l’evoluzione di una rara forma di Alzheimer che ha colpito la professoressa universitaria Alice soffermandosi sui primi sintomi della malattia, sulle debolezze, i sussulti e le tensioni che questa comporta per dare tempo e spazio di capire come la si può vivere da di dentro.
Alice è una donna bella ed intelligente che è riuscita a costruirsi una carriera universitaria (è un’affermata docente di linguistica) e a conciliarla con una famiglia pressoché perfetta: un marito (interpretato da Alec Baldwin, ottimo nella parte) che la ama e tre stupendi figli che, ad eccezione di Lydia, hanno seguito le orme dei genitori. Nella prima sequenza vediamo l’intera famiglia raccolta attorno al tavolo di un elegante ristorante newyorkese per festeggiare il compleanno di Alice ma Lydia è assente, da subito individuata come la pecora nera perchè ha fatto scelte diverse disattendendo le aspettative dei genitori. Su questa micro tensione si iscrive uno dei binari dell’evoluzione del dramma di Alice, che poco dopo avere brindato a tanti successi deve fare i conti con la diagnosi del suo neurologo: patologia genetica di una forma precoce del morbo che lentamente le cancella la memoria.
Nel descrivere l’evoluzione della malattia, perno narrativo del film, i due registi scavano il dramma da un lato nei rapporti famigliari e dall’altro in quelli professionali mostrando le due facce – private e pubbliche – del morbo che intacca i ricordi privati e le conoscenze professionali in un percorso atroce di annullamento che fa riflettere su chi siamo e di cosa siamo fatti. In questo senso, Still Alice mi sembra superare esperimenti come Lo scafandro e la farfalla di Julianne Schnabel (2007) dove c’era un’introspezione solo privata, intima, sulla tragedia di un uomo di successo costretto alla sedia a rotelle e a fare i conti con dei limiti fisici inimmaginabili e insostenibili. Alice deve fare lo stesso: deve combattere contro se stessa e per se stessa per tenere assieme i pezzi di un puzzle che giorno dopo giorno si sgretola perchè non trova più i termini giusti, non sa dove mette le cose e saluta due volte la stessa persona.
Reiterando su alcuni passaggi (la corsa al parco, la sosta dal gelataio, i pranzi in famiglia), i registi mostrano la progressione della malattia e conferiscono peso ad avvenimenti chiave nel cambiamento del personaggio secondo una scrittura classica, pulita. Più Alice è lontana da quello che era e che aveva, più la trama deve arrivare al momento rivelatore: ecco il discorso di Alice per l’associazione che lotta per gli affetti da una simile malattia in cui lei prende in mano il suo cuore, abbandonando la rigida impostazione accademica, e riesce a comunicare le paure, il vuoto in cui si sente sprofondare, facendo cadere le barriere che la avevano trattenuta fino ad allora. Il suo discorso arriva come “O capitano o mio capitano” di L’attimo fuggente, con lo stesso carico emotivo. E funziona.
Da quel momento in poi la malattia degenera sempre più velocemente: Alice non riesce più a controllare i suoi stimoli, non ha più il vocabolario base e non riconosce i figli. La famiglia ha delle reazioni differenti e solo Lydia saprà starle accanto, proprio come il figliol prodigo. Il rapporto Alice – Lydia è quello più ostico nel quadro complessivo del film, forzato e ricattatorio, non ha la stessa profondità raggiunta da Woody Allen in Interiors (1978) ma si sofferma sulla soglia, come in Nemiche- Amiche di Chris Columbus (1998). Un piccolo neo in un dramma complesso e riusciuto.
Elena Cappelletti