Le due sfilate più attese dell’ultima Fashion Week parigina, Gucci e Celine, sono state ispirate dalla vita notturna degli anni ’70-’80, quando vestirsi per uscire era creare nuove mode e nuovi stili di vita
Il mese delle sfilate si è chiuso a Parigi come di consueto e con molte presentazioni attesissime. Fra queste soprattutto Gucci, in temporanea trasferta, e Celine, con il debutto del nuovo direttore artistico Hedi Slimane. Mondi diversissimi, quelli dei due brand, anarchico pastiche di stili ed epoche il primo, fedele all’estetica affilata e un po’ crudele del suo nuovo direttore artistico il secondo, ma accomunati da una visione della prossima primavera-estate che sarà un nostalgico omaggio alla vita notturna degli anni ’70-’80.
La sfilata di Gucci è andata in scena, letteralmente, nello storico locale Le Palace in rue du Faubourg-Montmartre. Teatro costruito nel XVII secolo, nel corso del ’900 Le Palace è diventato music hall, sala da ballo, cinema e infine il club punto di riferimento della scena notturna parigina e del jet set internazionale a cavallo fra gli anni ’70 e gli ’80. Mick Jagger, Andy Warhol, Debbie Harry e tutti gli altri “animali notturni” che ci sono passati sono stati citati nella collezione di Alessandro Michele, come sempre carica di riferimenti molteplici ed eterogenei, che in più questa volta ha restituito l’immagine di una vita notturna, di un clubbing elevato a forma espressiva che probabilmente ora non esiste più.
Celine, la nuova Celine rimodellata dal golden boy dello stile parigino che ha fatto lievitare i fatturati di Dior Homme prima e di Saint Laurent poi, ha sfilato nel cortile de Les Invalides, riconvertito per l’occasione in una passerella per ragazzi e ragazze pronti per uscire la sera: un’enorme installazione di specchi e plexiglass come gate d’accesso a quella vita vissuta “con le dita nella presa”, nelle parole di Slimane stesso, fatta di notti trascorse, almeno negli anni ’80, a Le Palace appunto o a Les Bains Douches, locali citati nella cartella stampa.
E mentre la nuova Celine di Slimane è stata molto criticata dalla stampa anglosassone per avere di nuovo messo al centro un corpo femminile ipersessualizzato con silhouettes strizzate e minigonne inguinali (in partnership con un uomo altrettanto “sottile”, vagamente efebico e nerovestito), per il giornalista Godfrey Deeny semplicemente “si è trattato di una collezione potente, che ha mostrato quel fascino sessuale che da sempre pervade Parigi dopo il tramonto”, anche se le location storiche della nightlife non esistono più.
Les Bains Douches, infatti (locale ricavato nel 1978 da un vecchio bagno turco e che ha beneficiato del contributo artistico di Pierre et Gilles e di Philippe Starck) rimanda sì all’epoca d’oro della disco e del clubbing che si è esaurita – dopo cambi di generi e di location – entro i primi anni 2000, ma che, con altri nomi storici (fra i quali l’inevitabile Studio 54 tanto caro a Tom Ford) alimenta tuttora un immaginario tanto forte da segnare indelebilmente la creatività dei designer quaranta-cinquantenni.
Può trattarsi dell’ennesima sfumatura di nostalgia, oppure di un legame, quello fra notte ed estetica, che ha sempre ispirato e generato creatività diffusa e che ora, per mutate dinamiche sociali legate all’intrattenimento, non trova nel contemporaneo niente di altrettanto ispirativo.
Da quando l’affermarsi della borghesia cittadina ha reso già nell’800 “l’uscire la sera” un comportamento sociale diffuso e ricercato l’arte se ne è interessata mettendo la vita notturna dei locali e dei loro avventori al centro di innumerevoli quadri di Degas, Toulouse-Lautrec, Boldini, e in seguito delle avanguardie storiche, ma è con l’età del jazz che nelle sale da ballo si forma un’estetica capace non solo di catturare l’arte ufficiale, ma di divenire gusto di massa, in una parola “moda”. Dalla fine degli anni ‘70, con l’esplosione della disco e delle istanze libertarie che ne erano alla base (cultura afroamericana, cultura omosessuale e libertà sessuale acquisita dalle donne dopo il ‘68) il ballo, la notte e i club nei quali ritrovarsi e farsi vedere hanno sempre determinato delle mode. Così come lo Studio 54 è legato a immagini di glamour cinematografico e di seduzione esaltati da abiti aderenti in jersey e scollature abissali, il Blitz Club di Covent Garden, a Londra, è stato la culla del movimento New Romantic e della sua estetica ingenua e dirompente, nella quale volant e arricciature divenivano il manifesto tanto di identità fluide che del bisogno di sfuggire a una realtà dura e oppressiva. Sul finire degli anni ’80, prima l’Haçienda a Manchester (“Madchester”, in quel periodo) e dal 1991 Ministry of Sound nella periferia londinese hanno segnato il gusto di un decennio con l’house music e i look che anticipavano le tendenze streetwear che avrebbero imperversato poi.
A Milano il Plastic ha accompagnato l’affermarsi della moda italiana a partire dagli anni ‘80: code interminabili all’ingresso per entrare solo se si sapeva stupire, “farsi notare con un capo, un accessorio o la determinazione” e un privé che ha ospitato Karl Lagerfeld, Keith Haring, Grace Jones, Donatella Versace, Vivienne Westwood ed Elio Fiorucci. Questo mentre il Tenax di Firenze vedeva imporsi le tendenze ispirate alle sub-culture Goth e New Wave, e la Romagna era il fulcro di una creatività esagerata e barocca quanto quella della Baia Imperiale o del Cocoricò.
Del resto un’analisi dell’Eurisko della metà degli anni 80 esortava ad uscire la sera per capire quanto avrebbe venduto il proprio prodotto: era la base della costruzione di un’estetica di successo, “vincente” e rappresentativa a livello sociale.
L’ultimo locale influente, e seminale per l’estetica promossa, è stato probabilmente il BoomBox di Londra, attivo nell’East End a metà degli anni 2000 e per poco più di un anno, anno durante il quale una generazione di creatori inglesi e di studenti delle scuole d’arte ha trovato lì il proprio primo palcoscenico. E ora? Ora i numeri delle persone che frequentano i club notturni sono crollati, resiste il Berghain di Berlino anche per merito di un’ottima programmazione musicale in ambito techno, ma nel resto d’Europa il dancefloor è stato sostituito dalle aree da concerto nelle quali i dj non suonano più in una postazione a bordo pista ma su un palco, con il pubblico rivolto verso di esso. L’esperienza del ballo è spesso relegata ai festival di dance ed elettronica che si organizzano soprattutto nei mesi estivi, ma questi sono “non luoghi”, aree enormi dalle quali non può generarsi alcuna estetica di riferimento. E non si potrebbe generare neppure all’interno di locali e discoteche (termine obsoleto quanto le architetture che le ospitano) progettati negli anni ‘70: forse i millenial preferiscono stare in casa a guardare Netflix ma sarebbe comunque difficile immaginarli in spazi notturni pensati 40 o 50 anni fa. Esiste oggi un’architettura per l’intrattenimento, per il clubbing? Forse no, anche se il Vitra Museum ha celebrato con la mostra Night Fever. Designing Club Culture 1960 – Today (conclusasi lo scorso settembre) i templi del divertimento che sono stati crocevia di sub-culture e mode, segno che per l’immaginario collettivo hanno significato e significano ancora qualcosa.
Come per la moda, che con un po’ di malinconia tenta di prolungare il più possibile il fascino della notte e di chi l’ha vissuta o la vorrebbe ancora vivere.
Claudia Vanti