In ogni ricerca di un autentico artista si possono individuare delle opere – cerniera, lavori che da un lato aprono un varco verso nuove soluzioni e dall’altro raccolgono in sé il senso profondo e comune di quelle precedenti. Ritengo che Plegaria Muda (2008-2010) di Doris Salcedo (1958, Bogotà) sia una di queste. E’ un’installazione ambientale complessa e di lunga gestazione che l’artista colombiana ha scelto di esporre isolatamente sotto forma di mostra monografica itinerante. Il progetto espositivo, a cura di Isabel Carlos, è approdato in Italia al MAXXI (15 marzo – 24 giugno 2012); nel corso del 2011, invece, ha stazionato a Malmö (Moderna Museet), a Lisbona (CAM – Centro de Arte Moderna) e a Città del Messico (MUAC).
Dai primi anni ’90 ad oggi la produzione artistica di Salcedo, attraverso inediti procedimenti scultorei, installativi e topografici, rivolge la sua attenzione verso le forme di crimine che attanagliano la vita ordinaria della sua nazione e del mondo intero, nello sforzo di comprenderne e di visualizzarne gli effetti deleteri sulla singola persona, in quanto impotente testimone. Più che rappresentare realisticamente la violenza civile, a Salcedo interessa concretizzare esteticamente, elaborandole con procedimenti psicoanalitici, le esperienze traumatiche di chi vive sulla propria pelle, sia singolarmente che collettivamente, il dramma della “morte sociale”. Quasi sempre le opere di Doris Salcedo prendono il via dall’ascolto delle storie da incubo raccontate da chi è sopravvissuto alla tragedia e che è stato, dunque, spettatore della scomparsa e/o dell’assassinio di persone a lui/lei care. Pezzi di vecchia mobilia, logore scarpe usate, stralci di tessuti, frammenti di ossa assieme al cemento, all’acciaio, al piombo, vengono di volta in volta accostati e contrapposti, incastonati e scorporati, sì da formare unità plastiche autonome sulle quali gli assistenti dell’artista successivamente intervengono microchirurgicamente squarciando ferite (tagli, fori, bruciature) e tessendo suture (saldature, cementificazioni). Queste sculture sui generis fungono da frammenti di drammatica testimonianza: sono correlativi oggettivi dell’incomunicabilità del dolore subito dal testimone. Nelle composizioni scultoree di Doris Salcedo non c’è figurativismo: ciò che stilisticamente le caratterizza è un’ibrida astrazione geometrica sospesa tra razionalismo minimalista e organicismo poverista. Nonostante ciò, la figura del corpo molestato non è meno avvertibile, anzi è proprio la mancanza di riferimenti iconici all’organismo danneggiato che ne rendono assai più pervasiva, sia psichicamente che sensorialmente, la drammatica presenza. Queste “creature” – termine col quale la Salcedo ama chiamare le sue sculture – appaiono al contempo vulnerabili e minacciose, in via di rinascita e di deterioramento, dialogiche ed ermetiche: silenti, fragili e sinistre astanti del male.
Dopo questo succinto disegno delle linee elementari che conformano la poetica di Doris Salcedo, è ora di soffermarsi su Plegaria Muda. Plegaria Muda segna – come la stessa artista ha dichiarato durante una sua recentissima conversazione con Tim Marlow (http://whitecube.com) – una novità rilevante nel suo percorso artistico, poiché in essa per la prima volta ella ha deciso di non immedesimarsi più con il punto di vista del testimone dell’evento luttuoso bensì con quello della vittima in carne ed ossa dello stesso drammatico accadimento. Plegaria Muda (2008 – 2010) consiste di centinaia di sculture identiche, ad eccezione di alcune piccole variazioni dimensionali e coloristiche. Come nella serie Unland (1998) l’artista utilizza dei tavoli di legno in quanto materia prima. Ogni unità scultorea si compone di due tavoli sovrapposti, l’uno con i piedi al suolo e l’altro capovolto con le gambe in aria. La disposizione dei tavoli ne lascia emergere in modo latente le valenze antropomorfe. Tra i due tavoli è stata inserita una compatta e spessa zolla di terra a forma di bara. Sorprendentemente dal piano del tavolo superiore spuntano, qua e là, dei ciuffi d’erba. L’iperrealistica erba di resina e le “bare” di terra umida innescano stimolazioni olfattive e tattili, che costringono l’osservatore di ogni singolo “sepolcro” ad una percezione ravvicinata, particolareggiata e lenta. Ognuno di questi assemblage polimaterici è accostato ad altri sì da formare micro-installazioni, la cui disposizione paratattica genera la macro-installazione site specific che delinea un percorso fruitivo con ritmo sincopato e ripetitivo; questo fa da contrappunto a quello dilatato e avvolgente che caratterizza, come abbiamo visto, ogni sua singola componente. Salcedo ha voluto, così, focalizzare lo sguardo su ogni singola “sepoltura” per rimarcare l’irriducibilità di ogni individuo estinto nonché la continuità e serialità con la quale tanta morte anonima dolorosamente si consuma sotto la nostra indifferenza, in quanto spettatori e internauti assuefatti alla violenza simulata dall’infosfera e generata dalla biopolitica, sua fidata alleata. Nonostante Plegaria Muda ci parli in prima istanza di fosse comuni e di sparizione di quegli esseri umani etichettati come non-persone, in quanto abitanti dei non-luoghi circoscritti strategicamente dalla biopolitica, il suo senso profondo non è meramente politico-sociale bensì essenzialmente etico-morale. Plegaria Muda non è monumento che vuole preservare la memoria della tragedia creando eroi fallaci né tantomeno è un memorial pubblico (cfr., May Lin,Vietnam Veterans Memorial), che incarna dei significati, per quanto profondi, inevitabilmente referenziali e transitivi; essa è, più che altro, il supplemento intransitivo di una “preghiera” che non è mai avvenuta e che si interroga autoreferenzialmente sui suoi limiti e sulla sua moralità, sollevando interrogativi esistenziali senza preventiva soluzione. Il potere performativo di Plegaria Muda è fragile, vulnerabile e potenzialmente pure violento, ma è un gesto dovuto perché ci coappartiene in quanto esseri umani, ossia mortali: “Non si può tenere un discorso sul “lavoro del lutto”, senza prendervi parte, senza farsi partecipi della morte, e innanzitutto della propria” [J. Derrida, 2005, trad. .it, Ogni volta unica, la fine del mondo”, p. 159].
Domenico Esposito
D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012