Boyhood di Richard Linklater – che ha vinto l’Orso d’Argento come miglior regista al Festival Internazionale del Cinema di Berlino 2014 – è talmente agganciato al reale, alla complessità dell’ordinario e a una vastità di colori che esistono senza venir percepiti, che scriverne avverte della propria parzialità e infonde la sensazione di averne mancato alcuni aspetti primari.
I lacci fittamente legati al reale sono costituiti dalla peculiarità tecnica del film: essere stato girato in dodici anni. Dal 2002 infatti la troupe si è ritrovata una volta all’anno per effettuare riprese e post produzione, seguendo così la crescita del giovanissimo Mason (Ellar Coltrane, che al primo ciak aveva 8 anni), della sorella Samantha (interpretata dalla coetanea Lorelei Linklater) e dei loro genitori: Mason Senior (Ethan Hawke) e Olivia (Patricia Arquette).
Con la dilatazione ultradecennale, i corpi degli attori assurgono a plastilina del tempo e, invecchiando spietatamente senza bisogno di truccatori, divengono protagonisti tanto quanto i personaggi che interpretano.
In questi dodici anni Linklater racconta la famiglia Evans, ritraendola nei momenti quotidiani, ripetitivi solo apparentemente e, quindi, esplicativi dello scorrere delle vite. Delle quattro esistenze che segue il regista non mostra momenti traumatici, strappi, successi o tutto ciò che potrebbe farne qualcosa di avventuroso o straordinario. No, Boyhood non è la successione delle polaroid della famiglia Evans: ne è il flusso, il divenire.
Inoltre, insieme alla famiglia vengono narrate cultura e società degli Stati Uniti e, seppur in sottofondo, gli avvenimenti politici, il susseguirsi dei look, il cambiamento del design dei locali e le più importanti novità tecnologiche. L’epopea familiare diventa così un sottile calco americano.
Tutto il senso che può crearsi in questo scorrimento temporale – nonostante la post produzione e l’esistenza di una sceneggiatura – deborda in qualche modo dal controllo dell’autore, perché il materiale girato e montato, per esempio, nel 2002 cambia di significato con lo sviluppo di un discorso i cui elementi subentrano di anno in anno, in rapporto soprattutto alla cronaca americana in senso lato, ma anche all’estetica dei corpi. Semplificando: nel 2002 Linklater non poteva prevedere di inserire la scena su Obama o, nel secondo caso, che viso avrebbe avuto Mason a 16 anni.
Infine, in Boyhood si vede una forma-famiglia in costruzione, qualcosa di non ancora strutturato, ben diverso dalla cosiddetta famiglia tradizionale, ma non si tratta nemmeno di una famiglia allargata. Un insieme di unità che si muovono senza regolarità: mamma, papà, nuovo marito di lei, nuova compagna di lui, poi ancora nuovo compagno di lei, nonni, amici più intimi. Tra tutte queste micro-famiglie, a loro modo autonome (con uno spazio di distanza e isolamento dalle altre unità) e che vanno a comporre la nuova famiglia, è interessante osservare come anche i figli siano a loro volta una micro-famiglia, che entra in dialogo con le altre unità dell’insieme per trovare un equilibrio inedito. Una delle scene più efficaci è quella che, in vista del primo trasloco di mamma Olivia e dei due figli, mostra Mason e Samantha che ridipingono di bianco le pareti di casa, cancellando le tacche colorate con cui la madre aveva segnato sul muro la loro crescita. Scompare presto la protezione dal mondo e, con l’arrivo della fanciullezza, occorre che i due bambini siano pronti per le danze della vita.
Giordano Bernacchini