Concentriamoci sulle opere scelte per dOCUMENTA13, piuttosto che citare una o l’altra in quanto rappresentativa di una delle quattro categorie che Carolyn Christov-Bakargiev ha eletto a contenitori ideologici – rischiando magari di fuorviare le intenzioni curatoriali- tra le centinaia di opere esposte nelle numerose location di questa edizione, scelgo di menzionare le più poetiche, quelle con cui la connessione è stata più intensa.
Oltre alle sedi tradizionali – Friedericianum, Neue Galerie, Documenta Halle, Ottoneum, Orangerie – tutt’altro che trascurabile è la Hauptbahnhof, la vecchia stazione centrale di Kassel, oggi ancora attiva per il traffico locale: qui gli artisti canadesi Janet Cardiff e George Bures Miller hanno realizzato Alter Bahnhof Video Walk, il video della loro passeggiata attraverso la stazione stessa, fruibile dai visitatori, soggetti attivi dell’opera, attraverso degli iPod da prendere in prestito in loco. La voce fuori campo della stessa Cardiff ci invita a rifare quel percorso, seguendo il video e ascoltando i comandi, cogliendone suoni e immagini e creando così una sovrapposizione tra la nostra realtà e la precedente esperienza dei due artisti che scorre sul piccolo schermo. Attraverso quella che è concepita da Cardiff e Bures Miller come arte multisensoriale, nasce una nuova dimensione, che ci rende ancora più consapevoli del nostro corpo ed approfondisce la nostra immersione nell’ambiente. Quando, con la vista “rapita” dallo schermo dell’iPod e l’udito “ingannato” dal suono tridimensionale della tecnologia olofonica, ci voltiamo per cercare, senza successo, i cani che abbaiano o il treno che fischia, nel nostro presente possiamo percepire un senso di smarrimento, di perdita di un momento ormai trascorso; nel caso invece il frame del video corrisponda perfettamente al nostro sguardo, ciò che emerge è un sentimento di condivisione. Dalla sala principale agli ambienti laterali, lungo i binari e su e giù per le scale, ci troviamo immersi in una confusione di realtà e finzione, la stessa in cui erano intrappolati i prigionieri della caverna citati nel mito di Platone, dal quale ha origine questa installazione che ha il potere di rendere simultanei due mondi.
Spazia tra gli universi paralleli anche l’argentino Adrian Villar Rojas, le cui monumentali sculture, sopravvivenze di una natura primordiale o presenze di un mondo in cui umano e animale coesistono e sono in simbiosi, si manifestano in tutta la loro purezza sulle scenografiche Weimberg Terraces di Kassel: su tutte l’impatto più forte è con la delicatissima rappresentazione di una donna dai lineamenti africani che allatta un maialino. La fragilità delle opere – dal cervo addormentato nell’erba al gatto dal cui ventre fuoriesce un feto, dalla rudimentale culla in cui dorme un neonato al danzatore che tiene in grembo un cane – è espressa dall’insieme dei materiali, legno, pietra e cemento ricoperti da argilla cruda, che creano superfici disomogenee, a tratti lisce e a tratti ruvide, suggerendo un processo di trasformazione o di evanescenza. I lavori di Villar Rojas, con un approccio archeologico immaginario, si interrogano infatti sulla sopravvivenza della civiltà, sulle ultime opere dell’uomo: non a caso sono destinati a essere distrutti dopo l’esposizione.
Prima di accedere alle Weinberg Terraces il percorso di visita prevedeva l’ingresso, con tanto di elmetto in testa, nei labirintici sotterranei del Weimberg Bunker – cantine ottocentesche utilizzate per il deposito di ghiaccio e birra e convertite durante la seconda guerra mondiale a rifugi antiaerei – dove era proiettato il video Raptor’s Rapture di Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla. Al centro dell’attenzione, il più antico strumento musicale trovato finora: un flauto ricavato dall’osso dell’ala di un grifone, intagliato dall’Homo sapiens trentacinquemila anni fa e venuto alla luce nel 2009 grazie a scavi archeologici nella Germania meridionale. I due artisti hanno invitato la flautista Bernadette Käfer, specializzata in strumenti preistorici, a suonarlo, performance che incanta in quanto avviene in presenza di un grifone vivo, esemplare di un’antichissima specie oggi minacciata dall’estinzione, con cui si ha il desiderio di condividere, nel silenzio del bunker, questa testimonianza musicale relativa a una cultura umana preistorica.
Tra le opere esposte nelle location “classiche”, la più suggestiva, presso la Documenta Halle, è stata la videoinstallazione In Search of Vanished Blood di Nalini Malani, nata nel 1946 a Karachi, allora in India, oggi in Pakistan, e inevitabilmente legata alla situazione sociopolitica del suo paese, in particolare da quando, nel 1992, la distruzione della Moschea di Babur (XVI secolo) ad opera dei fondamentalisti induisti scatenò violenti scontri tra sette in tutta l’India: l’artista reagì abbandonando la pittura a favore delle forme del teatro e del video, così da raggiungere un pubblico più ampio, e scegliendo soprattutto protagoniste femminili, magari vittime della repressione religiosa, anche reinterpretando e riattualizzando eroine della mitologia e della letteratura. L’opera presentata a Kassel appartiene al particolarissimo genere della “video/shadow play”, in cui lo spettatore è circondato da un collage di video proiettati sulla parete e da ombre create da immagini dipinte sul retro di cilindri girevoli trasparenti, che nella forma richiamano le ruote di preghiera buddiste, mezzo per recitare il mantra facendole ruotare in senso orario. Le combinazioni e i significati nati da questi collage sono infiniti, tra figure che appaiono e scompaiono, si sovrappongono e si allontanano, simultaneamente alla rotazione dei cilindri. In particolare In Search of Vanished Blood è ispirato al poema Urdu The Rebel’s Silhouette del pakistano Faiz Ahmed Faiz (da cui è tratto il titolo) e ai libri Cassandra: a novel and four essays di Christa Wolf e The notebooks of Malte Laurids Brigge di Rainer Maria Rilke; l’audio è costituito da una selezione di brani tratti da Hamletmachine di Heiner Müller, da Krapp’s Last Tape di Samuel Beckett e dal racconto Draupadi dell’attivista sociale e scrittrice indiana Mahasweta Devi: questa multiproiezione, costituita da cinque cilindri, ti avvolge e ti attrae in uno spazio in cui il fluttuare delle immagini ti mette faccia a faccia con temi come il corso della profezia, la posizione fatale della vedova nella società indiana, costretta a vivere nell’ombra, e il fallimento della comunicazione tra gli uomini.
Valentina Tovaglia
D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012