Il Festival RomaEuropa ricompone il suo paesaggio multimediale riproponendo “Digitalife2”, rassegna di lavori multimediali già iniziata in diverse forme negli anni passati e ora codificata. Forme multimediali facevano parte già in passato dell’esperienza del festival con autori come Lepage e altri, nei linguaggi teatrali. La mostra sposta l’obiettivo dalle tematiche interattive e più tradizionalmente digitali a una più vasta area di “immagine digitalizzata”. Da una parte l’interattività e il 3D virtuale hanno una presenza ridotta e viene dato grande spazio all’immagine come ibridazione fra video e manipolazione digitale. Quasi una videoarte riflessa nello specchio multimediale, una declinazione di pratiche audiovisive che invadono lo spazio percettivo attraverso la versatilità del video, per ora più agile delle complesse installazioni interattive. La rassegna sceglie infatti un percorso storico dalla videorte in poi con l’autorevole citazione di Marina Abramovic, “body artist” storica ed eccellente, che memorizza le sue performance con il video, qui con una gigantografia di una sua performance “The Biography” del 2004.
A questa “testimonial” importante e carismatica si affiancano i lavori di diversi artisti fra cui i Masbedo, duo milanese che opera fra video e fotografia con un buon lavoro lineare e convincente, “Serendipity”, camminata pericolosa lungo una scogliera inglese famosa per il numero di suicidi, mentre, nei due schermi affiancati immagini cupe di scogliere e mari vengono tagliate da un faro, punto di riferimento di un “trovare per caso” che porta dal rischio alla calma, alla luce.
Dopo i segnali di pericolo dei Masbedo, il piccolo “videopoema” di Giuseppe La Spada, “afleur”, nato sul web e tutto tenuto in equilibrio fra still frames, impercettibili movimenti, e lievi sounds, simile a un frammento letterario dislocato in immagine: dei capelli, una mano, un fiore, un piccolo Prévert digitale. “Quayola” in “Strata” percorre attraverso dei rendering 3D due quadri di Velazquez e di Van Dyck. La perturbazione del quadro con un 3D che ne cambia continuamente la superficie pittorica è attraente, ma non è chiara la reale sfera d’azione del lavoro. E’ una mutazione dell’immagine dipinta? E’ lo scontro fra pennello e software? L’immagine si affida alla propria dinamica e non sviluppa concetti riconoscibili.
Il giapponese Saburo Teshigawara si affida all’alta definizione per avvicinare il teatrodanza alla sua forma duplicata e digitale, con un uso discreto del 3D e la volontà di trasformare la memoria del teatro in attualità live. A suo tempo la “Videodanza” aveva posto il problema di dare memoria stabile alla danza contemporanea; forse l’alta definizione e il 3D, insieme a forme stilizzate di rappresentazione, possono essere una soluzione efficace. Il giapponese Ryoichi Kurokawa si muove sulle linee del Live Media di profilo alto, con un suono severo che contrappunta le trasformazioni dell’immagine digitale, riprese dal vero e poi trasformate in un lavoro serrato di manipolazioni segniche. Queste forme che si avvicinano alle problematiche della musica contemporanea la sfiorano, la circondano ma senza entrare realmente in collaborazione.
Eppure oggi è evidente anche alla musica colta come sia necessaria una forma di Ri/spettacolarizzazione delle forme musicali, e anche quanto ci siamo allontanati dall’ideologia del suono puro di Luigi Nono, come dal rifiuto di forme che distraggano dall’ascolto.
Un altro “testimonial” della mostra è Christian Marclay, appena premiato alla Biennale di Venezia per “Clock”, un gigantesco montaggio di cinema industriale per parlare del Tempo. Qui presente con un’installazione sonora che sembra far riferimento alla famosa porta di Duchamp, una porta chiusa che lascia filtrare i suoni e le voci di una coppia, installazione che non sembra riferirsi tanto al Voyeurismo contemporaneo quanto alla quotidianità vista senza più illusioni, così come il Tempo in “Clock” non comprende solo momenti drammatici o salienti ma anche infinite sequenze di “trivia” quotidiani.
E’ un lavoro sul suono uno dei migliori della mostra: l’inglese Felix Thorne con “Felix’s Machines” si rifà agli “Intonarumori” di Russolo, con un’inventiva ingenua, infantile e accattivante insieme, creando pianini alla Charlie Brown, minibatterie, strumenti semplificati o miniaturizzati, tutti controllati da software e programmi. Sottratti all’eroismo delle grandi sperimentazioni gli “intonarumori” ridiventano gioco ( e gioco volutamente infantile), ma con interessanti risultati sonori e un’attraente “piacevolezza” di fondo.
Il digitale come dispositivo e comunicazione entra in campo specificamente con il Cattid e il suo “Co-Nect – The Future Mood”, dispositivo interattivo per raccogliere umori e emozioni del pubblico attraverso Ipad e la formazione di data base in Facebook, istituzionalizzando le ricerche portate avanti da diversi autori, dalla casa dello studio “Knox” alle “frozen emotions” di Maurice Benayoun negli anni scorsi. Ma piace, nel deserto della ricerca digitale in spazi universitari italiani, che nasca un progetto di ricerca corretto e gestibile. I “Santasangre” (operanti in campo creativo/teatrale) e la “Pool Factory” (attiva in campo dell’animazione 3D) presentano invece una ricerca su movimento e presenza del pubblico attraverso la rilevazione via sensore (radio frequency identification) del moto dei visitatori, renderizzato come una forma olografica in movimento, la somma del moto del pubblico nello spazio mostra. Originale è l’uso dell’ologramma, sperimentato con grande entusiasmo nei primi anni della new media art e poi messo un po’ in disparte, per mancanza forse di salti qualitativi nelle prestazioni spettacolari. Come il 3D, anche l’ologramma ha possibilità di sviluppi ancora inesplorati in campo estetico. La forma tridimensionale in continuo mutamento e labilmente presente, rappresenta una porta aperta a un “post schermo” di cui si è molto parlato.
Alla mostra si accompagnano incontri, convegni e performance, fra cui ancora i Masbedo che con “Lagash/La Musa” superano le forme più propriamente teatrali, coreografate del loro lavoro precedente con una vitale operazione live che shakerizza (alla lettera, è un frullatore l’immagine ricorrente ) le pratiche di suono e immagine video che formano la parte più stimolante del loro lavoro. Un bricolage video simile a certi “live Media” giovanili, molto efficace e vitale.
Alcune cose non arrivano a fondo, ma le proposte sono varie e ricche e nel magro panorama italiano d’arti digitali e multimediali la mostra spicca come un progetto aperto a futuribili sviluppi.
Lorenzo Taiuti
D’ARS year 51/nr 208/winter 2011