Damien Hirst è a Venezia con la mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable in cui riscopre il tesoro di una nave affondata duemila anni fa. O almeno così vuole la versione “ufficiale”…
La mostra di Damien Hirst Treasures from the Wreck of the Unbelievable a Palazzo Grassi e Punta della Dogana sta facendo parlare molto di sé. Chi l’ha visitata ne parla come di un gesto provocatorio e fine a se stesso, altri rimpiangono il genio anni ’90 degli animali in formaldeide, o ancora, alcuni la esaltano come una mostra di rottura che studieremo tra vent’anni. Chi invece ha visto solo le foto sui social commenta con affermazioni del tipo “aveva bisogno di vendere”, “ma che roba è”, “che cosa kitsch” (come se l’arte nel 2017 debba avere ancora a che fare con il bello così come lo intendeva Winkelkmann, ma quando si tratta di sculture il pericolo è più che mai alle porte). Mai come in questa mostra le opere non hanno alcun senso se prese singolarmente, ma vanno giudicate nell’insieme, nel discorso e nella storia che vanno a creare. Una conseguenza positiva è che i giornalisti sono tornati a fare il loro mestiere: ovvero a esprimere un punto di vista critico e a dare una guida interpretativa. Perché a credere alla versione ufficiale della mostra, ovvero quella raccontata da Damien Hirst, dalla curatrice Elena Geuna e dall’ufficio stampa, si dimostrerebbe di non aver capito assolutamente niente. Quindi, in questo caso, non vale il copia incolla e non se ne può parlare senza averla vista. Ed è una rarità assoluta se si considera che gran parte degli eventi, anche quelli culturali, si consumano online, tra Instagram Stories e dirette Facebook. Ma andiamo con ordine.
Martin Bethenod, direttore di Palazzo Grassi, in uno dei testi del catalogo cita Samuel Taylor Coleridge e il suo principio di volontaria sospensione dell’incredulità (in inglese willing suspension of disbelief) teorizzato nel 1817 in Biographia Letteraria: lo spettatore abbandona il proprio scetticismo e crede che tutto ciò che vede sia vero, accettando anche componenti innaturali, incongruenze della trama o elementi inverosimili. Quindi ho fatto il mio primo giro in mostra forzandomi di credere all’universo fittizio creato da Damien Hirst.
Mi è stata allora raccontata la storia di un collezionista vissuto tra il I e II secolo d.C., Cif Amotan II di Antiochia. Nato schiavo e poi liberato, ha grandi possibilità di scalata sociale grazie al coinvolgimento in affari dei suoi padroni di un tempo e così inizia a collezionare sculture, gioielli e manufatti provenienti da ogni parte del mondo. Decide di ergere un tempio dedicato a re Sole e fa costruire la nave Apistos (dal greco incredibile) per trasportare la sua opulenta collezione, che affonderà nell’Oceano Indiano e verrà riscoperta nel 2008 al largo della costa orientale dell’Africa.
Secondo questa lettura, l’operazione di Hirst è stata quella di recuperare il tesoro perduto, un tesoro appartenente al mito e alla leggenda, e di riportarlo alla luce in una complessa ed enorme operazione di restauro e catalogazione. Le statue e gli oggetti, in duemila anni sotto il mare, si sono ricoperti di coralli e spugne: alcuni sono stati restaurati, altri mostrati così come sono, altri ancora sono copie. Sul libretto che accompagna il visitatore lungo il percorso espositivo le opere vengono descritte spesso in riferimento alla mitologia e sono accompagnate da didascalie approssimative, senza datazione o indicazioni sulla provenienza. Alcune fotografie su lightbox mostrano queste stesse sculture in fondo al mare, come testimonianza. A Palazzo Grassi vi sono anche un video che mostra l’operazione di recupero del tesoro e un modellino della nave in scala 1:32, quest’ultimo allestito in una stanza con dei disegni in stile leonardesco (e si insinua il dubbio, sono copie dal vero o bozzetti preparatori?). Se si sospende l’incredulità, si ritiene possibile che Mickey Mouse e un orologio astronomico Maya convivano in una collezione del I secolo d.C., si crede che la statuaria greca sia realizzata secondo i canoni dell’epoca, ci si convince che sia possibile togliere il corallo dagli oggetti – corallo che a contatto con l’aria diventa pietra – senza alternarli o rovinarli in alcun modo.
Poi ho fatto un altro giro all’interno della mostra, con occhi disincantati, chiedendomi che cosa avessi visto esattamente senza trovare una risposta, come in quei film con il finale aperto. Ripenso a F for Fake, documentario sui generis di Orson Welles realizzato nel 1973 sul rapporto tra verità e arte in cui si racconta in particolare di falsari e di quadri ritenuti erroneamente veri. Si interroga su quale sia il valore dell’autenticità e il ruolo dell’arte, e lo stesso si può dire di Treasures from the Wreck of the Unbelievable, seppur con mezzi differenti. Mettendo in scena un universo totalmente costruito dall’autore, in cui resta anche il dubbio se le sculture ci siano state davvero in fondo al mare o sia tutto interamente creato in studio, Hirst ci invita ad interrogarci su ciò che vediamo e su quanto labile sia il nostro senso del reale in un mondo sempre più complesso, fatto di immagini e copie. Se il nostro rapporto con le cose è sempre più filtrato dai media e sempre meno autentico, quali strumenti abbiamo per giudicare ciò che ci viene detto? Ma forse la domanda finale e profonda è se abbia ancora senso credere che esista una verità.
La condizione post-moderna è stata teorizzata nel 1979 da Jean-François Lyotard e in questo senso non c’è nulla di nuovo. Ma l’universo immaginario di Damien Hirst è diverso da tutto ciò che abbiamo visto fino ad ora. È esagerato, eccedente, esuberante (dal catalogo la citazione da William Blake “l’esuberanza è bellezza”), è tutto troppo: per quantità, dimensioni, tipologia di materiali (dal marmo di Carrara all’oro). Quest’estetica eccessiva, radicata nella materia, spazza via tanto minimalismo e tante mostre iperconcettuali fatte negli scantinati di Berlino con mattonelle buttate a terra che assurgono a opera d’arte. E soprattutto critica tanta arte politicamente impegnata, fatta di documentazioni ed archivi, che dobbiamo credere vera ma che in realtà è sempre un’interpretazione, un punto di vista sulle cose. Anche il libretto con le didascalie sembra beffeggiare molta arte concettuale, in cui l’opera vive solo come parola. Hirst recupera la classicità, ma la rovescia e la contamina con tutto ciò che appartiene alla cultura di oggi, in cui convivono alto e basso (e quindi Atena e i Transformer, ma anche questo è un discorso che dovremmo avere già digerito da un po’). Forse anche una critica al nostro modo di rapportarci all’arte, e in particolare all’arte classica, che nonostante tutto continuiamo a vivere come un periodo irripetibile e che continuiamo a idealizzare. Quando pensiamo alla purezza e al candore di certi materiali, ci dimentichiamo però che Pericle e la sua cerchia vedevano templi e statue coloratissimi. Quindi, ancora una volta, che cos’è il cattivo gusto, che cos’è il Bello?
Il tesoro e il suo naufragio sono anche la storia di François Pinault che, come Amotan II, è un self-made man (Pinault inizia la sua carriera negli anni ’60 con un’industria di legname che poi verrà quotata in borsa). La storia della nave Unbelivable è ciò che accadrà alla sua collezione e a tutta la nostra cultura, destinata ad affondare, a coprirsi di muffa e rompersi. Ci ricorda che les statues meurent aussi, anche le statue muoiono.
Eleonora Roaro
Treasures from the Wreck of the Unbelievable
Damien Hirst
a cura di Elena Geuna
Palazzo Grassi e Punta della Dogana (Venezia)
09/04 – 03/12/2017