C’è un’idea, quella della complessità e delle sue “vie”, con cui lo studioso francese Edgar Morin ha descritto la svolta del pensiero scientifico moderno. È un’idea che può essere applicata a tutti i fenomeni e che pertanto si adatta bene anche al teatro inteso come un luogo in grado di riflettere la complessità sociale essendone, prima di tutto, un luogo di osservazione.
Non è un caso quindi che molta parte della produzione teatrale contemporanea scelga un modo di affrontare la complessità del mondo assimilandone le forme, i linguaggi ma anche certi contenuti così da svolgere al meglio la sua funzione riflessiva. In quest’ottica può essere letto il progetto pluriennale O/Z – della compagnia ravennate Fanny & Alexander, fondata da Chiara Lagani e Luigi de Angelis – ispirato a Il Meraviglioso Mago di Oz (1900) di Lyman Frank Baum e alla versione cinematografica del 1939 di Victor Fleming. È da qui infatti che riconosciamo l’iconografia evocata dalla serie di spettacoli che, coerentemente con la storia di Dorothy e dei suoi compari, si presenta come un viaggio. Ecco allora che la metafora più compiuta dell’immaginario collettivo contemporaneo, il viaggio, con la sua qualità meta-territoriale e performativa, viene applicata efficacemente al percorso drammaturgico di O/Z. Si procede per tappe che richiamano i luoghi della trama originaria per poi trattarli dal punto di vista dell’immaginario che evocano – i suoi miti e il suo simbolico – e “rimediarli” nei modi della ricerca espressiva di F&A. Una ricerca per la quale il mondo di Oz viene ricostruito secondo i parametri di una geografia ibrida, simbolica, che è poi il pretesto per riflettere sul mito del potere, sull’arte e la società, sulla metropoli, sulla comunicazione, sulle utopie… Il progetto O/Z è un lavoro corale composto di spettacoli singoli, destinazioni autonome che però nel loro insieme costituiscono la mappatura dell’intero viaggio teatrale e umano di F&A e del loro pubblico. Si comincia con Kansas spettacolo incentrato sulla figura di Dorothy così come la performance spin-off Kansas Museum in cui si avvicendano fra le sale di una galleria 5 diverse declinazioni dello stesso personaggio, accompagnato dalla figura ricorrente dell’Hitler versione Him di Maurizio Cattelan e interpretata da Marco Cavalcoli. Si passa in East, terra della Strega ma qui anche l’Indocina bonificata dall’eurocentrismo. La figura di riferimento è il “tin man” e il racconto si avvale del linguaggio morse che richiama anche il battito del cuore mutilato dell’uomo di latta e con esso il senso del corpo nel linguaggio. Sconcerto per Oz è l’opera musicale che anticipa le tappe South ed East. Un viaggio percettivo i cui esecutori sono gli agenti “atmosferici” del ciclone che porta Dorothy da Sud a Nord nello scenario composto dalla partitura stratificata di esecuzioni dal vivo, omaggio alle Europeras di John Cage, e dalle scenografie luminose alla maniera di James Turrell e di Dan Flavin. Il pubblico seduto sui materassi, come nello stadio di Houston durante l’uragano Katrina, è al centro del ciclone visivo – un’installazione di 600 neon fluorescenti – e sonoro creato con una partitura musicale gestita da un’interfaccia midi. Lungo questa linea di ricerca anche South si presenta come lavoro musicale in cui la Dorothy di Fiorenza Menni (già Teatrino Clandestino) è immersa con il pubblico, di cui in qualche modo funge da avatar, nel buio della sala, sovrastata dall’immagine del mago-dittatore, che prende volume grazie al sound design di Mirto Baliani fatto di percussioni, rumori, folate di vento, urla e presenze da cui, alla fine, riemerge il palcoscenico con la schiera di ventilatori in vista, a svelare l’artificio teatrale. Alla fine l’attrice vestita da sposa omaggia Pippa Bacca e il suo sacrificio nel nome dell’arte e della fiducia nel prossimo. North, invece, è l’opera giocata attorno al pedonium, una grande “tastiera” apparentemente allestita con le assi del palco e “suonata” da Dorothy, qui interpretata dalla stessa Lagani, che con le sue scarpette rosse la esplora e attraversa facendo uscire i suoni e rumori amplificati.
Un tappeto sonoro che fa il paio con una macchina scenica interessante anche dal punto di vista delle immagini e del light design, adatta allo scenario magico e inquietante che porterà Dorothy a pronunciare la fatidica frase There’s no place like home, formula che insieme al gesto rituale di battere tre volte i tacchi, le permette di tornare in Kansas e che dà il titolo a un’altra tappa del viaggio di F&A. Qui otto diverse Dorothy – esposte come in un’immagine di Vanessa Beecroft – tentano di partire per il proprio viaggio, metafora di un cambiamento o forse di un passaggio dall’immaginario al reale e viceversa. E così in Emerald City – città ideale e utopica adatta alla finzione del film come alla sua ripresa teatrale – il pubblico incontra il mago che, sempre sotto le spoglie di Him, sta lì inginocchiato davanti a una parete composta di altoparlanti ad ascoltare le richieste dell’umanità cui può rispondere soltanto con la mimica facciale. Quello stesso mago che in Him – spettacolo che assimila teatro e cinema senza privilegiare nessuno dei due linguaggi – assume invece le parti di un direttore d’orchestra sempre inginocchiato, che ricorda il grande dittatore di Chaplin, nell’atto di doppiare tutto il film, proiettato alle sue spalle, tutte le parti, musica compresa, in un’impresa attorale particolarmente potente. E poi West, punto cardinale estremo del progetto, unico lavoro in cui Oz pur non apparendo in nessuna forma diventa il dispositivo stesso di uno spettacolo che parla dell’Occidente e della natura subdola e prevaricatrice del potere. E infatti in scena la Dorothy che è valsa il premio UBU a Francesca Mazza, compie uno strano monologo sconclusionato intercalato da movimenti un po’ nevrotici e frenetici di cui solo alla fine si capisce l’origine. Infatti lei sola riceve in cuffia dei comandi relativi alle cose da dire e da fare. Il senso è quello dell’eterodirezione prodotta dalla comunicazione di massa, dalla persuasione occulta della pubblicità descritta nel saggio un po’ datato ma evidentemente ancora suggestivo di Packard e della resistenza con cui attraverso l’avatar di questa Dorothy anche noi proviamo a dire di no. Infine il progetto trova una sua collocazione stabile in O/Z. Atlante di un viaggio teatrale (ubulibri) ispirato a Mnemosyne di Abi Warburg e alle sue tavole immaginali. Un formato, quello del libro, che con la sua autonomia dà l’avvio ai transiti cognitivi della lettura e perciò a un nuovo viaggio.
Laura Gemini
D’ARS year 52/nr 209/spring 2012