The Art of the In-Between: l’imminente mostra del Met dedicata a Comme des Garçons annulla il confine fra arte e moda nella costante ricerca sul corpo e sulle sue modificazioni.
Ma la moda è un’arte? Domanda provocatoria, questione mai risolta di gerarchie e reciproche influenze. Eppure un marchio che può ambire a una dignità concettuale ed espressiva autorevole c’è, Comme des Garçons – la creatura di Rei Kawakubo – che dal 4 maggio prossimo sarà protagonista della mostra The Art of the In-Between al Metropolitan Museum di New York.
La retrospettiva presenterà circa 150 capi di Kawakubo dai primi anni ’80 alla collezione più recente, capi che, nelle intenzioni del curatore Andrew Bolton, illustrano le sperimentazioni della designer nell’“interstizialità” (in-betweenness), lo spazio tra i confini. Gli abiti infatti saranno organizzati in otto sezioni estetiche: Moda/Anti-moda, Design/Non Design, Modello/Multiplo, Poi/Ora, Alto/Basso, Sé/Altro, Oggetto/Soggetto, Abiti/Non-abiti. Kawakubo abbatte i muri immaginari tra questi dualismi, esponendone l’artificialità e l’arbitrio e ponendosi nel “mezzo”, in una dimensione indefinita che si apre anche a interpretazioni metafisiche.
Già dal debutto a Parigi nel 1981, durante quegli anni ’80 che videro l’esplosione del ready to wear e di un’estetica assertiva e “vincente”, le collezioni dei creatori giapponesi iniziarono a trasformare le nozioni abituali di bellezza e di identità, offuscando il divario tra arte e moda.
Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo, soprattutto, dettero vita a una rivoluzione nella concezione occidentale del corpo e dell’abbigliamento, utilizzando materiali elasticizzati o tagliati in modo tale da modificare i canoni tradizionali del corpo e dei volumi in abiti che fasciavano, avvolgevano, nascondevano e riorganizzavano il corpo, ignorando il sesso di chi li indossava. Riorganizzare il corpo: questo è il punto centrale dell’estetica di Kawakubo, ed è anche uno statement politico, dato che si viene così a creare una sorta di deformità autonomamente rivendicata come alternativa valida alla figura femminile tipica dell’immaginario occidentale e basata su una diversa concezione della seduzione e dell’erotismo.
Un lavoro costante, quello di Kawakubo sulla (de)formazione, che cominciò a essere esplicito con la collezione Body Meets Dress, Dress Meets Body (p/e 1997), una collezione tanto amata quanto criticata – e ribattezzata ironicamente Lumps and Bumps – nella quale lo studio dei volumi si esplicitava con l’inserimento di vere e proprie protesi morbide che spostavano il focus su punti del corpo lontani dalla classica iconografia della seduzione e lasciavano ampio spazio alle interpretazioni sull’intenzione concettuale della designer. Come non associare infatti i “fardelli” imbottiti sulle spalle alla forma di un bambino in fasce e a un commento evidente sul peso (fisico o metaforico) della maternità? O alla femminilità esagerata, fardello essa stessa e non per scelta propria ovviamente, dei “bozzoli” posati sulle anche?
Forse un altro motivo per il quale la collezione apparve (e lo è tuttora) così innovativa fu che si trattava quasi di una pura rappresentazione della moda come forma d’arte, pur non deflettendo dalla propria funzione di indossabilità. È in questo spazio intermedio (per richiamare il tema della mostra del Met), fra la pura rappresentazione che non ha bisogno di una giustificazione e la funzione dell’oggetto-abito, che risiede il confine dell’arte?
“In ogni oggetto di design vige un patto non meno ferreo che tacito: la forma asseconda la funzione nella misura in cui la funzione lascia libera la forma. Che si tratti di una contraddizione è palese. Che da questa contraddizione sia nato il panorama culturale e sociale del nostro tempo è altrettanto evidente.”
In questa citazione di Maurizio Vitta, tratta da Le voci delle cose, che si applica bene al design di Kawakubo, non c’è una vera e propria risposta, ma la constatazione che la contraddizione, così come lo spazio intermedio, alimenti la cultura e l’arte.
L’ultima sfilata di Comme des Garçons, presentata a Parigi a febbraio, ha alzato ulteriormente l’asticella verso la rappresentazione concettuale e la body modification, abbandonandosi esclusivamente a pezzi scultorei e monolitici. Forme enormi, ancora una volta bozzoli, che contengono i corpi, ma questa volta in materiali normalmente non associati all’abbigliamento.
Pluriball argento, feltro e ovatta, schiuma per imbottiture e resine isolanti, magari ricoperte (di nuovo la critica acidamente ironica) di velluto o pizzo. E con la concessione del tocco di civetteria dei “capelli” in un materiale che ricorda le pagliette per la pulizia delle pentole, in una foggia vagamente XVIII secolo.
“Cattivissima” Rei, che negli ultimi anni non pare più interessata a mostrare vestiti relativamente borghesi sulla passerella: per quelli ci sono gli showroom, per tutto il resto c’è il Met.
Claudia Vanti
Rei Kawakubo/Comme des Garçons, The Art of the In-Between
Metropolitan Museum, New York
4 maggio – 4 settembre 2017