Making worlds potrebbe essere il sottotitolo di questa mostra, “rubato” alla 53a Biennale di Venezia (2009) curata da Daniel Birnbaum: tra i protagonisti di quell’edizione brillava proprio il giovane argentino Tomás Saraceno che aveva frequentato la prestigiosa accademia Städelschule a Francoforte, allora diretta dallo stesso Birnbaum. Dopo aver studiato architettura a Buenos Aires, Saraceno si era trasferito in Germania per perfezionare la sua formazione artistica fino a diventare in poco tempo una delle figure più interessanti del panorama contemporaneo.
In questi mesi, più precisamente fino al 15 gennaio 2012, l’Hamburger Bahnhof di Berlino gli dedica una mostra personale che comprende, per la prima volta, una selezione di 20 installazioni ospitate nella cosiddetta historische Halle del museo. Una location simile, per concezione e uso, alla Turbine Hall della Tate Modern: si tratta infatti di una sala centrale, immediatamente accessibile ai visitatori, destinata ad interventi temporanei di grande impatto a cura di un singolo artista. Del resto entrambi i musei nascono dalla riconversione di edifici originariamente destinati a tutt’altro. La Tate Modern era una centrale elettrica mentre l’Hamburger Bahnhof era una stazione ferroviaria costruita a metà Ottocento in stile tardo-classicista e divenuta ufficialmente sede museale nel 1996 dopo un lungo periodo di restauro.
L’ambiente arioso di questa ex-sala d’attesa con ampie vetrate e sottili colonne scure si presta efficacemente ad accogliere le strutture biosferiche di Saraceno che, mantenendo un’equilibrata distanza le une dalle altre, offrono al visitatore un’esperienza “a tutto tondo”. Due di queste Cloud Cities sono praticabili a sette metri di altezza, a turno, però, perché non sopportano più di due persone alla volta. I visitatori fanno la fila per coricarsi sopra uno strato di cuscini d’aria dove qualsiasi movimento del corpo ottiene risposte speculari in forme di adattamento elastico; protetti da una bolla trasparente, vengono accolti dentro un sistema minimale fatto di spinte e controspinte che bastano all’auto-conservazione del tutto. Tensione, leggerezza e interazione sono le parole chiave per attraversare queste architetture utopiche progettate in collaborazione con scienziati e ingegneri, ispirate alle cupole geodesiche di Richard Buckminster Fuller e agli studi di architettura biomorfica di Frei Otto.
La ricerca di Saraceno si orienta verso ciò che lui stesso ha definito le “utopie realizzabili” contro i pregiudizi della scienza costruttiva architettonica. In contrapposizione al modernismo prescrittivo e dottrinale, chiuso e statico, l’artista argentino parte da presupposti biomorfici servendosi di riferimenti scientifici e naturali che hanno ispirato l’elaborazione delle cosiddette geometrie non-euclidee. La dinamica delle bolle di sapone (qui ingigantite come fossero monadi) si fonda, per esempio, sulla particolare struttura di Weaire-Phelan che permette di disporre nello spazio cellule di uguale volume occupando il minimo di superficie. Così il modello della ragnatela con le sue qualità uniche di flessibilità e resistenza consente la progettazione di tensostrutture, flessibili e reticolari, sostenute da una continua sinergia delle parti, meccanismi che vengono applicati anche per le installazioni esposte.
Passeggiando tra queste “città nuvole” sospese nella sala centrale dell’Hamburger Bahnhof si ha la possibilità di interagire con forme di energia pura, ridotte alla massima trasparenza e leggerezza, componenti di un paesaggio utopico che si disegna all’interno di un presente reticolare dove il molteplice prolifera attraverso movimenti orizzontali e fluidi. Emblema di questa condizione sono le Tillandsia, piante senza radici, che assorbono il loro nutrimento direttamente dall’aria e, sebbene provengano originariamente dal Centro-Sud America, sono capaci di adattarsi rapidamente a diverse condizioni climatiche, comprese le bolle di Saraceno.
Ad arricchire questo percorso nelle Rieckhallen dell’ala ovest si può visitare Architektonika una selezione tematica di opere dalla collezione Friedrich Christian Flick, un importante lascito acquisito dal museo tre anni fa. Ciò che a prima vista può apparire come una mostra “collaterale” si rivela un interessante excursus sul lavoro di artisti che si sono confrontati con la dimensione dello spazio e della progettazione dagli anni Sessanta a oggi, dove grandi classici si alternano ad alcune vere e proprie perle, imperdibili per chi avrà occasione di passare da Berlino entro il 12 febbraio. Dalla Land Art a Gordon Matta-Clark e Dan Graham fino al progetto del Children’s Pavillon di Jeff Wall e, in ambito tedesco, da Bruno Taut e Ludwig Leo fino a Thomas Schütte eAndrea Pichl non mancano spunti di riflessione e occasioni di confronto. L’allestimento termina con l’installazione claustrofobica di Bruce Nauman dal titolo emblematico Room with my soul left out, room that does not care (1984) quasi a rigettare lo spettatore a se stesso, alla sua mera fisicità, all’ugenza dell’esserci, al punto zero della tensione tra individuo e ambiente.
Clara Carpanini
D’ARS year 51/nr 208/winter 2011