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Christo. Riflessioni finali su The Floating Piers

Un successo di pubblico incredibile, milioni di foto postate sui social, molte critiche e frettolosi giudizi. Vi proponiamo una riflessione che è al tempo stesso “a priori” e a “posteriori”, grazie a un testo di Pierre Restany, amico e mèntore di Christo, datato 1995 ma sorprendentemente attuale.

Christo- the floating piers - ph Harald Bischoff (Opera propria) [CC BY-SA 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], attraverso Wikimedia Commons
The Floating Piers. Foto di Harald Bischoff (Opera propria) [CC BY-SA 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], attraverso Wikimedia Commons
The Floating Piers di Christo è indubbiamente il “caso” dell’anno. Numeri da capogiro, si parla di più di un milione di visitatori totali. Da lunedì 4 luglio sul Lago d’Iseo tutto è tornato come prima, ma quest’opera lascia segni, tracce fiumi di fotografie, migliaia di post sui social e soprattutto resterà impressa nelle emozioni di  persone che forse non hanno mai messo piede in un museo.

Molte autorevoli voci si sono levate, tra entusiasmi e polemiche: non sono mancate le critiche per l’impatto ambientale invasivo e il problema dello smaltimento dell’opera, le parodie, i fotomontaggi e l’ironia scatenatasi sui social e in alcuni emblematici post di opinionisti che hanno molto seguito, come quello dello scrittore Fulvio Abbate (che tra l’altro vanta trascorsi come critico d’arte):

«La passerella di Christo sul Lago d’Iseo è davvero meravigliosa! Grazie a un artista, il Vangelo si è finalmente trasformato in opera di escursionismo pop, come un tempo acquistare un souvenir con la piccozza e le stelle alpine. Lui, Christo, fa addirittura camminare sulle acque. Raramente un artista riesce a dare gioia al suo pubblico, a maggior ragione se inconsapevole dell’esistenza dell’arte stessa. In questo caso Christo ci è riuscito in pieno».

Tra gli interventi più intransigenti spicca quello del nostrano “critico col papillon” che addirittura parla di «sagra di paese di quelle con la tenda e la donna cannone… Sono robe obsolete, Christo le fa da quarant’anni, no? A me sembra una cosa circense, ma io sono per la liberté: ognuno ha il diritto di considerare arte quello che vuole».

Personalmente ritengo che obsoleta e passatista sia la reiterata esigenza di dividere cosa sia arte da cosa non lo sia: nell’era della complessità non c’è spazio per dicotomie e categorizzazioni. E non c’è abbastanza tempo per riflessioni costruttive: si trovano nei media “opinioni” adeguate ai minuti a disposizione, nei talk show o nei social, dove la performance intellettuale si risolve nel dire “mi piace” o “non mi piace” senza approfondimento, senza una vera analisi dell’opera e della società che essa abita. Un critico non dovrebbe fidarsi troppo del fatale piacere narcisista insito nella mera esposizione dei propri gusti e delle proprie idee, se poi non le sa declinare alla luce delle proprie conoscenze. La nostalgia e il bisogno di queste figure di riferimento mi portano a Pierre Restany, uno dei più significativi critici del ‘900, scomparso nel 2003. Una lunga conoscenza con Christo ed esordi condivisi: negli anni ’60 l’artista fa parte dei Nouveaux Réalistes, dei quali Restany è il mèntore.

Vorrei proporre uno stralcio – datato ma incredibilmente attuale – tratto dal libro che ho curato, Pierre Restany, la Part des Anges, pubblicato nel 2015 da Mudima e dedicato alla raccolta delle registrazioni delle riunioni di redazione della rivista D’ARS (della quale è stato direttore dal 1984 al 2003) . Nella trascrizione della  registrazione del 1995 Restany descrive la propria graduale presa di coscienza di cosa sia realmente la Contemporaneità, una chiarezza di pensiero dovuta proprio alla visione di tre importanti opere, tra cui una di Christo.

I brani che vado a riportare potrebbero essere stati scritti oggi e spiegare il senso profondo sotteso anche nell’opera The floating piers, attraverso una ricchezza di riflessioni che non dovrebbero mai mancare anche nella critica cosiddetta “contemporanea”.

(…) Mi sono reso conto che tre artisti che mi sono davvero molto vicini – essendo tra i protagonisti del Nouveau Réalisme, gente che ho seguito proprio dagli esordi, come César, Christo e Arman – avevano realizzato dei pezzi non soltanto giganti nelle loro proporzioni, ma anche di natura semantica diretta, spontanea, veramente in sintonia con il grande pubblico. Cose non belle, ma vere, vere ancora una volta per il grande numero. Così è scaturito in me questo concetto di contemporaneità (…).

Viviamo un mondo caotico, inutile dirlo, ove le ideologie non reggono più, ove cerchiamo e tentiamo di ricostituire una gerarchia di valori che sia operativa soprattutto per noi stessi; dunque in questo caos mi rendo conto che sta nascendo, in modo molto imperioso, un nuovo criterio di gusto o di sensibilità estetica, che potrebbe essere la contemporaneità. Ciò significa che la cosa che chiediamo alla visione è di essere capace di interessarci nelle zone più profonde della coscienza: i nostri dubbi, le nostre contraddizioni. Abbiamo bisogno di risentire la complicità, la connivenza con l’arte. Questo è il segno della contemporaneità.

(…) è da tempo che Christo, con il suo pacchetto gigante, il suo intervento sulla natura, è diventato una sorta di superman; la sua féerie, la sua magia è totalmente in tempo reale. Questa volta, impacchettando il Reichstag, anch’egli diviene di estrema e assoluta verità nella propria contemporaneità; il pubblico berlinese l’ha capito, l’ha capito proprio d’istinto. È stata una cosa allucinante: il Reichstag, con il suo vestito, il suo travestimento di plastica argentea attraversato da una serie di funi e corde blu, impacchettato dalla cima del tetto fino alla base, faceva pensare al famoso mausoleo di Alicarnasso. L’altezza massima del monumento di Christo era di quarantadue metri, proprio l’altezza del monumento di Skopas. Mi sono detto: ma questa è una meraviglia del mondo, del mondo di oggi, è una meraviglia del nostro quotidiano contemporaneo! Ciò è interessante, perché la verifica del pubblico è stata immediata, entusiasta, enorme, immensa. Nei due primi giorni di realizzazione del progetto – erano un sabato e una domenica – sono accorsi due milioni di berlinesi e durante i quattordici giorni, durata abituale delle installazioni di Christo, si sono contati cinque milioni di persone (…).

Ho vissuto dunque un grande momento: mi sono immerso nella folla, l’ho vista, ho sentito questo tipo di felicità, ho sentito che la cosa era loro, l’avevano fatta veramente loro, era una sorta di segnale, di pietra miliare sulla via di questa normalità con gli altri. In questa folla non c’era un naziskin, non c’era nessuno: in questa folla si amava l’altro e lo si voleva proclamare. È la prima volta che un lavoro di Christo sortisce questo tipo di effetto umano, diretto. Questo ben dimostra che, al di là dello spettacolare, della magia del progetto – perché era molto bello anche il suo progetto (…) – c’era insomma la presenza del quotidiano. Tutta questa magia, questa poetica in tempo reale delle relazioni di Christo, è stata assorbita dalla folla, dal grande numero, con una eccezionale sensazione di gioia, pace e bellezza.

Come dicevo, dunque, questi tre fenomeni sono stati fonte di grande riflessione e soprattutto mi hanno permesso una visione dall’interno della mia concezione prospettica del Nouveau Réalisme.

(…) Per rendere questo vero percepito come tale dal grande numero, bisogna creare un influsso supplementare di senso e di apporto semantico: bisogna rendere il vero un po’ più vero di natura. È ciò che hanno fatto César a Venezia, Christo a Berlino, Arman a Beirut: rendendo così il vero più vero di natura, lo hanno reso totalmente diretto, totalmente spontaneo, totalmente comunicabile – in un istante – al grande numero. Questo è ancora una volta per me una sorgente enorme, ricca di riflessione.

(In La contemporaneità, in Pierre Restany, la Part des Anges, a cura di Cristina Trivellin, Mudima edizioni, 2015, Milano).

Cristina trivellin

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