Diecimila milioni di frammenti è l’ultima opera dell’artista cinese Chen Guang, esposta al Gwangju National Museum di Pechino. I tanti frammenti che la costituiscono altro non sono che rifiuti, dei quali l’artista si serve per sviluppare una riflessione individuale su temi di interesse collettivo: urbanizzazione, consumismo e annullamento delle libertà individuali.
Chen Guang ci apre la porta della sua casa-studio a Songzhuang, il più grosso distretto d’arte di Pechino, ci fa accomodare e ci serve del tè per una, due, tre, infinite volte.
Chen Guang nasce nel 1971 nella provincia rurale dello Henan, posta proprio nel cuore della Repubblica Popolare Cinese. È figlio di contadini e a 15 anni è costretto a lasciare la scuola. Sente subito di voler fare l’artista ma la famiglia è contraria. Così, per raggiungere una certa indipendenza e senza avere l’età minima per farlo, si arruola come soldato. Dopo meno di un anno, nel 1989, partecipa ai fatti di Tiananmen. Assiste così a scene raccapriccianti, ma è un dettaglio a sconvolgerlo più di ogni altra cosa: una coda di cavallo, appartenuta probabilmente a una ragazza, che lui scorge la mattina successiva tra i tanti rifiuti che erano stati abbandonati sulla piazza.
Da allora i rifiuti non hanno mai smesso di interessare Chen Guang: egli li considera i testimoni privilegiati della storia. Ed è fatta di rifiuti anche l’ultima sua opera, Diecimila milioni di frammenti, esposta dal 2 aprile 2016 al Gwangju National Museum.
Per tre mesi Chen Guang ha raccolto a Pechino e dintorni un numero talmente vasto di rifiuti da poter essere quasi paragonato a quello dei corpi celesti che galleggiano nell’universo. In questo modo egli ha stabilito una sorta di connessione tra ciò che è umano e ciò che invece è naturale e quindi universale, secondo un principio tipico della filosofia cinese. Ma le connessioni non si fermano qui: la grande diversità di materiali di cui si compone quest’opera (legno, laterizio, bambù, lamiera e cemento) assomiglia molto a quella degli ingredienti di cui si compone la medicina tradizionale cinese. E infatti lo scopo ultimo di Chen Guang è quello di curare le persone in Cina, cercando di risvegliare una memoria che pare sempre più assopita.
Ma come fare tutto ciò? Scrivendo sulla superficie di quei frammenti ogni sorta di riflessione individuale, riguardante però temi di interesse collettivo: dall’urbanizzazione al consumismo, fino all’annullamento delle libertà individuali ad opera di una certa ideologia di stato. Chen Guang scrive anche della prigionia che ha dovuto affrontare in seguito ad una performance realizzata dallo stesso artista in occasione dell’anniversario dei fatti di Tiananmen. Si legge: “L’uomo si trova immerso in un costante processo di riflessione: non può sottostare al controllo della politica, ma non può neanche perdersi a pensare per ipotesi. Egli deve fare il possibile per esprimere il proprio pensiero attraverso il linguaggio, sia esso orale o scritto, anche se solo un decimo di quel pensiero potrà essere compreso”.
Di individualismo e memoria storica è intrisa tutta l’opera di Chen Guang: dalle pitture dai toni bluastri che rappresentano in maniera realistica i fatti di Tiananmen fino alle fotografie che ritraggono l’artista in compagnia di personaggi noti per essere perennemente osteggiati dal governo. Per non parlare delle recenti pitture in cui l’artista ha ritratto di spalle degli individui che portano sul corpo i segni di un’esistenza estremamente difficile, ma i cui capelli appena tagliati rivelano la volontà di una profonda rinascita.
Questa rinascita è possibile solo cercando di fare luce su tutti gli aspetti, anche quelli più oscuri, che costituiscono la storia di un individuo e della società a cui appartiene. Chen Guang sembra dirci che “la realtà non deve più fare male”. Ed è un messaggio di grande speranza.
Viola Morisi