Ore otto del mattino: la sala Lumière da duemilatrecento posti è completa e devo fare un’altra coda da un’ora per riuscire ad assistere alla prima proiezione di Reality, la sola opera italiana in concorso alla 65ma edizione del festival di Cannes. Una frenesia piacevole accompagna le giornate festivaliere, dove si entra e si esce dalle sale senza sosta e riesco ad assistere a quattro dei ventuno film in concorso, non mancando l’appuntamento con il film di Matteo Garrone. Come nel precedente Gomorra (2008), il regista affronta l’attualità con l’urgenza di denunciare gli effetti del reality televisivo sulla gente ordinaria; attraverso la parabola discendente della vita di Luciano (interpretato da Aniello Arena, un attore carcerato di Volterra) si è assorbiti dalla sua immensa smania di entrare nella casa e dalla crescente ossessione di un supposto controllo, che lo allontanano irrimediabilmente dal lavoro, dagli affetti famigliari e dalla realtà tout court. Un’opera tardiva se confrontata a The Truman Show che nel 1998 aveva diagnosticato con drammatica lungimiranza gli effetti del mondo dello spettacolo sulla vita dell’uomo qualunque e l’impressione diffusa è che Reality si sia giocato la corsa al palmares perché fuori tempo massimo. Concedendomi una banale tautologia, è evidente che quanto descritto in Reality è realtà da molto tempo e Garrone non riesce a sollevarsi dalla pulita e limpida narrazione della trasformazione del pescivendolo Luciano.
Storia di solitudine e ricerca di amore sono al centro di Paradies – Liebe di Ulrich Seidl, regista austriaco che compone quadri di una forza disturbante per descrivere il fenomeno delle donne bianche (le sugar mamas) che in Kenia pagano l’amore dei giovani kenioti senza riguardo alcuno all’abuso coscientemente commesso. La regia rafforza il cinismo della protagonista Teresa, decisa a trovare il piacere che le è dovuto perché pagato e con metodo maniacale addestra all’amore i concubini con cui si intrattiene, senza scivolare in facili sentimenti o pietismi. La coerenza con cui il film rappresenta i rapporti di questo nuovo colonialismo di matrice sessuale mi ha turbata nel lungo piano sequenza in cui le amiche di Teresa le organizzano la festa con uno dei ragazzi locali: la calma e, stranamente, la sentita necessità di questa scena (che non sarà indenne da una censura ai minori, qualora il film ottenesse una distribuzione nazionale) suggeriscono quanto sottile sia il confine tra il proprio appagamento e il rispetto dell’altro. La libertà di un uomo finisce là dove comincia quella di un altro, ma nonostante tutte le battaglie questa verità non è ancora diventata realtà.
Di battaglia e addestramento alla guerra (e non più all’amore, ma i due si confondo facilmente) si parla in After the battle di Yousry Nasrallah. Girato nel 2011 a ridosso dei fatti di sangue avvenuti in piazza Tahrir a Il Cairo, il regista macina la cronaca egiziana per riportarla all’attenzione mondiale: durante la rivoluzione dello scorso anno, la fazione dell’ex presidente egiziano Mubarak aveva inviato in piazza il gruppo di cavalieri-beduini contro i ribelli; l’intervento delle forze armate di Mubarak ha provocato un centinaio di morti di cui sono stati ingiustamente incolpati i cavalieri, disarmati. Adottando uno stile documentaristico, Nasrallah innesca sui fatti di cronaca la storia del cavaliere Mahoumud e della sua famiglia, mescolando la Storia con la vicenda personale, paragonando l’addestramento dei cavalli con quello delle masse per ricordarci la pericolosità delle immagini televisivi nel divulgare i fatti. Coraggiosa dunque la scelta del regista di entrare nel vivo della storia tanto che per questo motivo non ha ottenuto plausi a scena aperta. Per tutti i motivi elencati, credo che non sia un film destinato al grande pubblico, ma se ottenesse una circuitazione sarebbe in grado di provocare vive discussioni, smuovendo dal torpore gli spettatori.
Dopo tanta attualità, il film in costume Lawless di John Hillcoat riporta all’America degli anni trenta. Tratto dal romanzo The Wettest County in the World di Matt Bondurant il film ha un cast d’eccezione che conta Tom Hardy, Jessica Chestain e Shia LeBoeuf. Stigmatizzato dalla critica, che lo ha giudicato troppo hollywoodiano e quindi non adatto a Cannes, il film riesce a coniugare perfettamente ritmo, storia, sentimenti ed emozione in una composizione classica che rendono merito alla bravura del regista senza, è vero, assicurargli un valido motivo per la conquista della palma come miglior film.
Mentre scrivo siamo solo all’inizio del festival: la partita è ancora tutta da giocare, ma l’assaggio lascia presagire una profonda attenzione a vicende intime in cui l’educazione dell’uomo riveste un ruolo fondamentale e assume le mille sfaccettature definibili dai rapporti umani e in grado di diventare manipolazione, sfruttamento, sottomissione ma anche amore, amicizia e solidarietà. In una realtà che spesso sfugge, l’attenzione ai metodi educativi e comunicativi è utile a svelare le intenzioni che si celano nella loro scelta e le finalità che perseguono: così facendo, il cinema riesce a trasmettere e costruire cultura e in questo i primi quattro film non hanno affatto deluso.
Elena Cappelletti
D’ARS year 52/nr 210/summer 2012