Birdman è la visuale che ha la locandina appesa nel camerino di Riggan Thomson (Michael Keaton), celebrità hollywoodiana del passato, che persiste anche quando lui cerca di liberarsene, occultandola o distruggendola. Il finto piano sequenza totale (tecnicamente sono diversi piani sequenza) ce lo dice fin dall’inizio. Nel momento in cui Riggan si allontana dal proprio camerino, è osservato come da un’ombra sulla nuca, laddove quando vi ritorna viene invece accompagnato su per le scale con la macchina da presa puntata dritta negli occhi: l’azione fuori dalla stanza è stata governata da una forza fuoricampo, quella esercitata dalla locandina. E quando la visuale vuole prolungarsi fuori dal locale, dalla fissità, si serve del protagonista, che poi passa il testimone agli altri personaggi, durante le prove sul palcoscenico o in uno dei tanti ambienti illuminati del teatro-labirinto, ambienti-lampadina che interrompono l’effetto da videogioco first-person shooter e invitano la steadycam ad abbandonare i bui corridoi ed entrare, come un insetto attratto dalla luce. (…)
Giordano Bernacchini
D’ARS year 55/n. 220/spring 2015 (incipit dell’articolo)
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