La capitale tedesca ha celebrato, da metà ottobre, il mese europeo della fotografia con 136 mostre di cui molte resteranno aperte ancora per tutto il periodo natalizio, come quella dedicata al fotografo di moda Peter Lindbergh alla C/O Berlin, punta di diamante del programma. La Berlinische Galerie, in quanto centro ufficiale del Festival, ha presentato le stampe vintage di Emil Otto Happé, gli scatti iconici di Arno Fischer, vincitore del Premio Hannah Höch 2010, i lavori multimediali di Mutation III e da fine novembre ospiterà l’attesa mostra con le immagini che Nan Goldin, nel corso della sua carriera, ha realizzato proprio a Berlino.
Il mese europeo della fotografia è un’iniziativa nata nel 2004 che oggi raggruppa i Festival di Berlino, Bratislava, Lussemburgo, Mosca, Parigi, Vienna e Roma; nell’ambito di questo network internazionale è stato sviluppato il progetto Mutation, giunto alla terza edizione, pensato come momento di riflessione sul rapporto tra medium fotografico e contemporaneità stretta, tra convergenza digitale e ibridazione tecnologica. I contributi degli artisti selezionati quest’anno per il tema Public images, private views sono visibili non soltanto nelle rispettive sedi nazionali (qui ci riferiamo all’allestimento berlinese) ma anche attraverso il sito www.emop-mutations.net. Assieme alla rilevanza tematica il bando richiedeva, infatti, che i progetti fossero strettamente legati a internet per declinare le sfumature del rapporto tra sfera pubblica e privata nella dimensione on-line, interattiva e condivisa. Come hanno sottolineato i curatori, in questo caso sarebbe più opportuno parlare di immagini tout court piuttosto che di fotografia nel senso classico di opera conclusa: non sono le qualità estetiche a fare la differenza ma, piuttosto, la capacità di veicolare contenuti, la propensione a creare nodi di trasmissione di significati che viaggiano istantaneamente. Mentre lo statuto ontologico delle immagini rimane di fatto invariato, le pratiche costruite attorno ad esse nel web 2.0 assumono stratificazioni sempre più articolate modificando profondamente il nostro legame con la realtà. L’espansione è rizomatica: spazia dall’esperienza individuale e banale della quotidianità fino a toccare forme inedite di aggregazione sociale, di visibilità a livello globale.
Misurata in pacchetti d’informazione, la distanza diventa una sorta di ubiquità ottica attraversabile con lo sguardo nei progetti Bangalore: Subjective Cartography di Ewen Chardronnet e Benjamin Cadon e Topographies of the insignificant di Anders Bojen e Kristoffer Ørum. Entrambi si confrontano con la dimensione urbana ma ne rifiutano le definizioni tradizionali e, dunque, tutto l’immaginario modernista che le supporta. In linea con alcune intuizioni dadaiste e surrealiste, si affidano al riscatto del banale, all’esplorazione anti-lineare dei luoghi, ricercando nuovi punti di vista (basati su criteri intuitivi, empatici, aneddotici) secondo cui produrre mappature frattali dove ogni punto cliccabile veicola contenuti fittizi o reali, accessibili a tutti e modificabili da gruppi di utenti, non più dal singolo autore. Le topografie insignificanti dei due artisti danesi sono, per esempio, il frutto di un esperimento collettivo ancora in progress che si concentra sulla descrizione di spazi ultra-locali in cinque città europee diverse, senza dare rilevanza ai loro aspetti storici o distintivi. Lo scopo è proprio quello di evidenziarne la comune fisicità: sezioni di pavimento, piccoli insetti, resti di sigarette… Un microcosmo sul quale vengono costruite narrazioni aperte, non necessariamente descrittive, che aprono al ripensamento dell’identità urbana in scala. Un rifiuto analogo della visione classica torna nel lavoro degli artisti francesi svolto su Bangalore; ispirati dalle riflessioni del sociologo Henri Lefebvre hanno affrontato un tema tipicamente scientifico in chiave antropologica rivendicando il bisogno di immaginazione negato costantemente dai principi stessi della progettazione della metropoli contemporanea, totalizzante e iperfunzionale. Le loro misurazioni sugli effetti energetici e ambientali della massiccia esposizione alle onde elettromagnetiche negli spazi urbani sono state prodotte attraverso strumenti do-it-yourself e riferimenti intuitivi, talvolta persino magico-religiosi, intrecciando profondamente il livello simbolico della tradizione indiana con le mappature di una tecnologia globalizzata, in espansione virale.
Accanto al lavoro di recupero sugli archivi e gli album di famiglia presentato da Paula Muhr, la mostra Mutation III propone due contributi in direzione più documentaristica: quello di Rob Honstra e Arnold van Bruggen dedicato alla mappatura della zona attorno alla cittadina Sochi, scelta come sede dei Giochi Olimpici Invernali del 2014 e trasformata in punto di vista privilegiato da cui esplorare le contraddizioni che segnano la Russia contemporanea e, infine, l’interessante progetto Guantanamo: if the light goes out di Edmund Clark. Qui l’autore affronta un tema di grande rilevanza politica e mediatica, una situazione tutt’altro che risolta dal momento che il carcere (nonostante la promessa di Obama) non è ancora stato chiuso. Il punto di partenza consiste nell’idea di casa intesa come spazio che riflette i traumi e le memorie dei prigionieri, sospesi in una doppia dimensione pubblica e, al contempo, (de)privata. Lo sguardo del fotografo si concentra sugli ambienti e gli oggetti producendo dei ritratti in assenza, proprio per evitare di ricadere in certi topos rappresentativi con i quali viene immediatamente identificata la base di Guantanamo. Un lavoro realizzato in digitale sotto il monitoraggio quotidiano delle autorità militari, frutto di una negoziazione continua, tenendo presente che comunque molte zone del campo rimangono inaccessibili. Le tracce visive raccolte trovano voce nei racconti degli ex-detenuti, di un avvocato e di un medico e sono parte di un progetto on-line che ha come obiettivo la raccolta di ulteriori testimonianze. In un regime di controllo sistematico applicato anche ai più piccoli oggetti – dalle lettere censurate al divieto di far circolare calendari, per esempio – lo spazio emerge come un limbo di legalità e violenza che continua a riecheggiare anche nei luoghi privati dove gli ex-prigionieri hanno ricominciato a vivere dopo la liberazione.
Clara Carpanini
D’ARS year 50/nr 204/winter 2010