La scomparsa del creatore franco-tunisino Azzedine Alaïa ha messo nuovamente in luce l’unanime apprezzamento per le sue creazioni da parte degli addetti ai lavori e non solo . È l’occasione quindi per dedicare una riflessione alla sua visione estetica senza tempo in rapporto al corpo femminile.
Qualche settimana fa è scomparso Azzedine Alaïa, il creatore che più di tutti ha posto il corpo femminile al centro del suo design.
È stato considerato universalmente un maestro, anche in ambiti culturalmente tradizionali: la mostra Couture/Sculpture, ospitata nel 2015 da una sede istituzionale come la Galleria Borghese, non registrò alcuna critica, neppure da parte di chi mal tollera le contaminazioni, ma al contrario un generale apprezzamento. Questo consenso unanime, mai vincolato a sudditanze economico-commerciali (la Maison Alaïa, piccola e, per la maggior parte degli anni, indipendente, non ha mai fatto pubblicità), introduce due temi o quesiti: un’esaltazione così testarda della “body consciousness”, della sensualità – mai volgare – rivendicata e anzi trasformata in strumento di autodeterminazione, ci interroga su quali siano i nostri parametri nel rapportarci al corpo femminile. Parametri spesso dovuti a stereotipi culturali e pregiudizi di varia derivazione.
Secondariamente, l’apprezzamento generale del design di Azzedine Alaïa ci fa riflettere su quali siano i canoni che definiscono il “bello” in un ambito specifico come quello della moda.
Il corpo femminile, dunque. Un argomento tuttora catalizzante che genera discussioni e strumentalizzazioni uguali e contrarie. Il corpo è così limitato e spesso definito a priori tramite categorizzazioni sommarie che di fatto annullano la complessità e la diversità.
Negli anni ’80, Alaïa, giunto a Parigi alla fine degli anni ’50 dopo gli studi in scultura all’Académie de Beaux Arts di Tunisi, si impose con uno stile che esaltava le forme (banalmente definibile “sexy”) trasformando le donne in una sorta di sculture viventi, monumenti alla consapevolezza di sé. Donne lontane da ogni fragilità esibita o subalternità, e soprattutto in grado di assumere il controllo della propria sensualità.
Con l’abilità sartoriale e la concezione dei volumi di un grande designer, Azzedine Alaïa ha assecondato il corpo femminile e la sua fisicità con un’azione che in inglese si definisce “empowering”, termine che in italiano è traducibile in vari modi (dare/conferire potere, emancipazione, responsabilizzazione), ma che nella forma originale comprende una molteplicità significativa.
Non è un caso, per uno stilista che ha potuto contare su molte e diverse figure femminili come interpreti delle sue creazioni, al di là delle inevitabili modelle: da un’icona trasversale come Grace Jones a una delle donne più apprezzate degli ultimi decenni, Michelle Obama, l’icona sociale e culturale che è stata in grado di competere anche a livello di stile con l’altra Mrs. O. dell’immaginario americano, Jacqueline Kennedy Onassis.
In definitiva, ideare silhouette ardite che rendessero statuari e dominanti i corpi delle donne qualunque essi fossero è stato un modo di mettersi al servizio delle aspirazioni femminili, di chi, anche attraverso l’estetica e l’immagine di sé, ribadisce la propria indipendenza. Attraverso abiti estremamente costruiti pur se in apparenza semplicissimi – inevitabilmente costosi, come ogni prodotto di alto artigianato – Azzedine Alaïa ha costruito una storia di grande libertà intellettuale, necessaria oggi come non mai, in tempi di eccessive semplificazioni.
Abiti come opere d’arte, quindi, che proprio nella mostra curata da Mark Wilson alla Galleria Borghese convivevano con le opere di Bernini e che, nelle forme reinventate con materiali elasticizzati e fluidi, lasciavano intravedere un classicismo di proporzioni se non di forme.
Proprio in un momento come quello attuale, nel quale nuove estetiche sdoganano il concetto di “brutto” come accettabile e addirittura desiderabile (Brutto è attraente, brutto è eccitante. Forse perché è più recente , detto da Miuccia Prada a margine di una sfilata), i volumi perfetti di Alaïa farebbero pensare a un’operazione di retroguardia, ma non è così semplice.
Che i codici dell’eleganza tradizionale siano considerati obsoleti non può stupire, e introdurre degli elementi “imperfetti” o ritenuti sgradevoli dai più, può avere il vantaggio della novità – all’interno di un settore che sulla novità fonda gran parte della sua sopravvivenza economica. Il discorso è lungo e merita ulteriori approfondimenti. Ci sono infatti da tenere in considerazione anche l’urgenza culturale che ci porta ora a includere modelli estetici di diversa provenienza e il bisogno iconoclasta di fare una (sana) tabula rasa, a volte, di ogni eccesso di perfezionismo.
Quello che però tutti sono evidentemente in grado di riconoscere nel design di un creatore come Azzedine Alaïa è statala capacità di lavorare la materia in funzione dell’anatomia, dando vita ad abiti che, pur innovativi nel taglio e nei tessuti, trascendono le tendenze in un’eleganza archetipica e duratura.
Difficilmente ci saranno eredi, ma il metodo, se non la visione, di Alaïa sarà fondamentale per molti creatori futuri.
Claudia Vanti