Nonostante a partire dagli anni Novanta le donne siano entrate progressivamente a far parte del mainstream della scena artistica italiana, è altrettanto vero che ancora oggi permane una certa diffidenza, che ha profonde radici nella storia degli ultimi sessant’anni, sia da parte delle artiste a riconoscersi una specificità non esclusivamente femminile, sia da parte della critica a ricostruire una genealogia dell’arte femminista come arte del posizionamento strategico all’interno del sistema[1]. L’arte certamente non ha genere, ma non altrettanto si può dire degli artisti, come scriveva già Lucy Lippard negli anni Settanta. Non certo perché essere donne implichi automaticamente una precisa modalità espressiva, quanto perché gli stereotipi del femminile, siano essi acquisiti o respinti, corrispondono a precise formazioni socioculturali di tipo sia materiale che discorsivo che, nella maggior parte dei casi, hanno impedito alle donne di fare arte dichiarando esplicitamente la propria collocazione rispetto alla storia e alla società.
Un fenomeno tipicamente italiano, se confrontato alla condizione delle artiste dei paesi anglosassoni nello stesso periodo, favorita quest’ultima dalle relazioni feconde fra pratica dell’arte e femminismo, che altrove ho definito “sospetto dell’appartenenza”[2], prendendo spunto dalla domanda posta da Emanuela de Cecco ad alcune artiste in occasione della mostra Non toccare la donna bianca curata da Francesco Bonami alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino nel 2004. Un sospetto sostanzialmente dettato, nel caso italiano, dall’incapacità di superare criticamente i dualismi tra militanza ed emancipazione, luoghi della teoria e luoghi della pratica, istanze individuali e rivendicazioni collettive, che ha impedito alle pratiche della differenza femminista di confrontare costruttivamente le molteplici configurazioni di potere esistenti.
Se un merito ha avuto Carla Lonzi nella sua pur breve interrogazione del mondo dell’arte, è stato proprio quello di consentirci di partire dalla differenza indicandola non come specificità essenziale del femminile, ma come posizione da praticare per indagare e decostruire l’assenza delle artiste dalla storia. La mostra Autoritratti. Iscrizioni del femminile nell’arte italiana contemporanea al MAMbo di Bologna partedunqueda Lonzi innanzitutto metodologicamente, riprendendo il titolo della raccolta di interviste fatte dal critico a un gruppo di artisti a lei vicini, recentemente ripubblicata insieme agli altri scritti di Lonzi[3]: le interviste compongono un autoritratto di Lonzi per via indiretta, per così dire, attraverso un raccontare che è lasciare parlare e dunque anche porsi in relazione, “una possibilità d’incontro” rivolta all’altro che osserva ed è sempre chiamato in causa nella dinamica dell’appropriazione e dello spossessamento reciproci.
Il femminismo di Autoritratti, più che nelle singole opere esposte,risiede nella struttura interlocutoria del progetto, nella quale l’io delle artiste emerge attraverso lo scambio, e un completamento di senso è richiesto a chi di volta in volta si pone nella posizione dell’altro (che sia l’artista, il curatore, lo spettatore, il lavoratore del museo). Prima della mostra vera e propria, infatti, Autoritratti è stato un progetto durato alcuni mesi, curato e mediato da Uliana Zanetti partendo da una idea di revisione critica del museo, la necessità di “riposizionarne” le collezioni, e attraverso discussioni on e offline, scambi, proposte, aggiunte, diserzioni, approdato infine a una mostra a cura condivisa (divisa cioè in sezioni affidate a curatrici diverse).
Nel processo di costruzione di Autoritratti sono state invitate a partecipare tutte le lavoratrici del MAMbo, anche se poi non tutte hanno attivamente contribuito allo sviluppo del progetto. Una traccia dei dialoghi tra gli artisti e le lavoratrici del museo è nella performance di Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini Some kind of solitude, la cui ideazione ricorda le azioni di maintenance art dell’artista americana Mierle Laderman Ukeles. Mocellin raccoglie le testimonianze di otto lavoratrici legate alle difficoltà relazionali incontrate nel vissuto quotidiano. Durante la performance, i racconti rielaborati in un unico testo sono letti da Mocellin seduta di fronte a Pellegrini attorno a un tavolo, che richiama quello di Lonzi e Consagra sulla copertina di Vai Pure. Pellegrini, che resta in silenzio, interviene solamente spegnendo di tanto in tanto la luce che pende sul tavolo, e costringendo quindi la compagna (anche nella vita) a interrompere e ricominciare ogni volta la lettura. La performance mette in scena l’ostinazione del dialogo di coppia che continua, nonostante i silenzi, le interruzioni, il tentativo di oscurare la presenza dell’altro, mentre la donna artista si fa anche portavoce di una testimonianza che diventa condivisione di un’esperienza tra chi è intitolato a parlare e chi non ha voce e visibilità per farlo.
Secondo l’approccio del femminismo situato, l’identificazione si riconosce sempre come parziale, perché nel movimento di uscita e ritorno su di sé comprende l’alterità, richiamando la relazione nell’esercizio di riappropriazione da cui passa l’iscrizione del femminile. In questo senso, dunque, molte delle opere in mostra sono autoritratti che si iscrivono attraverso l’altro: la ricopiatura a mano dei Quaderni di Simone Weil realizzata da Sabrina Mezzaqui, il documentario di Paola Anziché Sur les traces di Lygia Clark, le palline contenute nel distributore – Grande Madre di Mili Romano, l’installazione acustica di Liliana Moro sul matricidio, che va ascoltata da molto vicino, i 100 Films al femminile in stile Guerrilla Girlsdi Daniela Comani, le intrusioni nelle immagini della madre nella serie fotografica 20.12.53-10.08.04 di Moira Ricci, i ricami di pizzo come materializzazione e insieme occultamento dei ricordi di famiglia nei lavori e sul corpo di Silvia Giambrone. E ancora le stelline che scandiscono (Di)segnare il tempo di Chiara Camoni e della nonna Ines Bassanetti, le sedie incastrate e sovrapposte in Dialogo Tondo di Claudia Losi, il campo da gioco Agonale di Anna Scalfi Eghenter, dove si vince solo insieme, se si collabora alla comprensione condivisa.
Femminista, dunque, è il superamento dei dualismi che ha caratterizzato sia il progetto di Autoritratti sia i suoi esiti anche eterogenei, nei quali sono confluiti incroci di teoria e pratica, riflessioni in forma di immaginario (gli studi dattiloscritti di Trasforini sull’isteria trasformati in un’installazione, per esempio) e pratiche il cui senso deriva dall’essere insieme grazie all’operazione di cura di chi le ha scelte: tutti elementi che scardinano l’identità stessa del museo come contenitore vuoto, trasformandolo in costruzione in itinere, luogo della relazione condivisa e del riconoscimento trasversale.
D’ARS year 53/nr 214/summer 2013
[1] Di questo si è discusso ampiamente anche nel primo degli incontri pubblici moderati da Uliana Zanetti e organizzati in concomitanza con l’avvio della mostra nella seconda metà di maggio, per proporre delle “Riflessioni sulla differenza nella ricerca e nella pratica artistica contemporanea”, cui ho preso parte insieme a Lisa Parola e Lisa Perlo del collettivo a.titolo, Francesca Pasini e Silvia Spadoni.
[2] F. Timeto, Il sospetto dell’appartenenza, in Contro Versa. Genealogie impreviste di nate negli anni ‘70 e dintorni. Sabbia Rossa Ed., Reggio Calabria, pp. 144-171.
[3] http://www.etal-edizioni.it/shop/product-tag/carla-lonzi/