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Arte tessile alla Biennale

Alla chiusura della 57. Esposizione Internazionale d’Arte dal titolo Viva Arte Viva, curata da Christine Macel e incentrata sugli artisti e la loro capacità di creare un nuovo umanesimo, è impossibile non registrare l’enorme quantità di opere ispirate all’ arte tessile se non alla moda. Una pratica non nuova ma che ci parla più che mai del nostro presente

Da Alighiero Boetti in poi, l’arte tessile – già frequentata dalle avanguardie storiche – si è ricavata un posto stabile come medium espressivo irrinunciabile per la rappresentazione di eredità antropologica e identità sociale. Ora però queste scelte formali sono dettate da motivazioni varie e forse contraddittorie.

arte tessile
Cynthia Gutièrrez Cantico del descenso I XI, 2014 -Photo by: Italo Rondinelli, Courtesy: La Biennale di Venezia

Quella che si chiuderà alla fine di novembre era stata annunciata come la Biennale degli artisti: gli artisti e il loro modo di fare arte anche a prescindere da quella società politicamente intesa tanto presente nella precedente edizione.

I 120 artisti di Viva Arte Viva sono stati raggruppati per affinità in 9 Transpadiglioni che evocano una dimensione umanistica, con un occhio alla cultura (Padiglione degli Artisti e dei Libri) e un altro a una spiritualità sincretistica e solidale (Padiglione delle Gioie e delle Paure, dello Spazio Comune, della Terra, delle Tradizioni, degli Sciamani, Dionisiaco, dei Colori, del Tempo e dell’Infinito). Con una tale premessa è naturale che l’arte trascenda i confini divenendo a volte musica, etnologia, biologia, e a volte (secondo alcuni, troppe) arte tessile, cucito, rammendo e ricamo.

Nel Padiglione dello Spazio Comune, Maria Lai e i suoi assemblaggi di scampoli, nodi e nastri intrecciano i fili dei rapporti familiari e sociali in un racconto che discende da una dimensione arcaica. I fili uniscono, connettono – anche in modo non lineare, aggrovigliato – ma lo fanno con una presa di posizione molto netta, muovendosi all’interno della tradizione e dell’eredità ancestrale.

Trama e ordito si rincorrono lungo tutto l’Arsenale con due linee guida precise: partecipazione – opere a più mani o sulle quali intervenire – e recupero (di tecniche e di memoria).

The 57th International Art Exhibition - VIVA ARTE VIVA - Curator: Christine Macel
Francin Upritchard Various works, 2016- 2017, Photo by: Italo Rondinelli, Courtesy: La Biennale di Venezia

Si prosegue con l’artista marocchino Achraf Touloub (grandi “pelli” artificiali che sublimano l’eredità della caccia primitiva) e con l’opera di David Medalla, sulla quale i visitatori cuciono oggettini e biglietti e li consegnano a una temporanea immortalità; seguono l’atelier di Lee Mengwei, nel quale pezzi di tessuto strappati e portati dal pubblico sono ricuciti con fili multicolori, e i tessuti creati da donne messicane che Cynthia Gutiérrez ha posto sul piedistallo, come un monumento preventivo a un artigianato in via di sparizione.

Sempre alla tradizione sono ispirati i tappeti marocchini di Teresa Lanceta, e i 77 berretti di lana di Younés Rahmoun che introducono alla cultura musulmana e alla spiritualità sufi con il richiamo materico al saio dei primi asceti (suf – lana).

Ma d’altronde siamo già al Padiglione degli Sciamani, al centro del quale si trova la gigantesca tenda di Ernesto Neto, un’enorme tenda dello sciamano realizzata all’uncinetto sotto la quale meditare, riposarsi, ripararsi e infine connettersi – idealmente – alla cultura delle tribù amazzoniche supportate da Neto stesso. Una rappresentazione forse un po’ troppo didascalica dell’elemento sciamanico al quale – seppure in modo confuso – tuttora molti si rivolgono.

Drappi e tessuti anche nelle falene-maschere di Petrit Halilaj, realizzate in una sorta di atelier familiare con la madre ed altri congiunti assemblando pezzi di tappeti kilim e altri materiali: la tradizione e una precaria identità nazionale (kosovara)  poco a poco si trasformano un processo di autodeterminazione per le donne che hanno contribuito alla creazione.

Nelle opere che si ispirano all’arte tessile c’è quasi sempre un immediato richiamo a tecniche tradizionalmente legate al mondo femminile o a culture antiche. Da un lato l’appropriarsi di un mezzo espressivo tramite ago e filo diventa un fattore di riscatto identitario, dall’altro il gesto dell’artista che vi si accosta rischia di cristallizzarlo in una dimensione sentimentale che comprende anche il terreno scivoloso della nostalgia. Un giudizio ingeneroso, forse, ma quello che ne se coglie, soprattutto in un contenitore dilatato come quello della Biennale, è uno sguardo volto all’indietro, al recupero e alla salvaguardia dell’eredità familiare o di comunità ma che tutto comprende e assolve, visto che al di là di questi ripescaggi non c’è spazio per l’indagine critica. Tutto rischia di diventare “poetico e nostalgico”, due categorie che sono molto funzionali agli hashtag su Instagram, meno alla ricerca. Ma evidentemente questo “sguardo all’indietro” è una risposta a un momento storico che non brilla per visioni sul futuro.

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Alexander McQueen official Instagram account

Recupero e heritage sono concetti molto presenti nella moda degli ultimi decenni, tanto per i brand storici – che lavorano sulla percezione dell’unicità data dalla manifattura elevata e dalla tradizione – che per chi costruisce la propria identità con la ricerca sull’artigianato e sui materiali.

Le collezioni di Antonio Marras, ad esempio, sono zone franche nelle quali si mescolano moda e antropologia, echi di cinema, teatro e atmosfere retro’ che trovano un elemento distintivo nelle lavorazioni, nelle tecniche tradizionali e nella storia della Sardegna, terra d’origine costantemente presente nei rimandi e nelle ispirazioni.

Un caso in parte simile è quello di Alexander McQueen, che, con la guida di Sarah Burton, ha portato all’estremo il perfezionismo artigianale che contraddistingue il marchio. Il risultato è un design alimentato anche dalla ricerca costante di manifatture e tecniche tipiche della Scozia e dell’Inghilterra dei secoli scorsi. La sua cifra creativa fa riferimento a un immaginario femminile vagamente neopagano e questo leggero brivido da fairy tale inquietante azzera il rischio di derive troppo sentimentali. Ma intanto la comunicazione del brand, soprattutto su Instagram, documenta il lavoro minuzioso di molte mani femminili, i ricami e i tessuti artigianali delle Highlands, l’atelier insieme all’industria: etica ed estetica del lavoro che ha radici antiche, ancestrali, ma che nella moda sono un tassello naturale della “tecnologia” di settore.

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Huguette Caland Various works, 1971-1995 – Photo by: Italo Rondinelli – Courtesy: La Biennale di Venezia

Tornando alla Biennale, e alle presenze di arte tessile, nel Padiglione Dionisiaco il richiamo alla sessualità e al corpo femminile ci viene proposto dai lavori di Heidi Bucher (con abiti letteralmente pietrificati nella pittura) o dai corpi ricamati sulle tuniche indossate dai manichini di Huguette Caland, abbinati a disegni erotici. Il corpo femminile continua ad essere al centro del discorso sociale e della cronaca, e inevitabilmente dell’arte, in questo caso non c’è quindi alcuno sguardo all’indietro. Nei piccoli manichini di Francis Upritchard invece gli abiti vagamente tradizionali collidono con l’allure della posa, le sette figurine – idoli – flirtano con un appeal tanto misterioso quanto evidente e anche in questo caso il rischio di scivolare in un immaginario di retroguardia è evitato.

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Franz Erhard Walther Various works, 1975-1986 57. Photo by: Andrea Avezzù – Courtesy: La Biennale di Venezia

Il Leone d’Oro è andato a Franz Erhard Walther per un lavoro che unisce tessuti e colori in sculture da appendere o appoggiare al suolo. Geometrie e volumi che definiscono lo spazio, e nella progettualità che governa questa costruzione c’è un collegamento ideale con le avanguardie storiche: utilizzare la materia tessile come strumento per rappresentare e non necessariamente come esercizio della memoria.

Claudia Vanti

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