[Testo di presentazione della mostra “Art can save us (probably)”, di Anja Puntari in collaborazione con Massimiliano Viel, presso lo Spazio Ultra a Udine]
Negli ultimi quattro decenni si è sviluppata una profonda riflessione sulla relazione che il genere umano intrattiene con il contesto ambientale, sul consumo delle risorse e sull’impatto della nostra specie sulle altre specie e sull’ambiente. Questa crescente consapevolezza riguardo alla comprensione delle dinamiche naturali, e le conseguenti responsabilità cruciali che ne sono derivate hanno profondamente modificato, e stanno tuttora modificando, la nostra cultura e la nostra esistenza. Dal punto di vista generale ciò avviene all’interno di un vasto processo secolare di relativizzazione, un ineludibile percorso storico, culturale, evolutivo, che se da un lato trasporta l’umano sempre più “dentro” al resto del vivente, dall’altro lo investe di interrogativi, di scelte, di responsabilità, contribuendo a costituire quella coscienza che sembra configurare una sorta di discontinuità rispetto al passato. Copernico e Darwin, in particolare, hanno fornito un buon contributo a questo processo. Copernico ha detronizzato l’uomo dal centro dell’universo, anche se restava pur sempre la creatura eletta sulla Terra, la prima e più alta tra il vivente. Tre secoli dopo Darwin ha compiuto un’ulteriore relativizzazione spodestando la nostra specie dalla sua posizione privilegiata sulla Terra, dalla cima della piramide. Come tutti gli altri esseri viventi anche l’umanità non proviene da un atto improvviso e soprannaturale, ma da un lungo e tormentato percorso evolutivo, da un “progetto senza un progettista” che si realizza da sé. Tutti gli esseri viventi, umani compresi, non sono stati creati così come sono oggi e non sono fissi e immutabili, ma si sono evoluti a partire da circa 3,8 miliardi di anni fa da un remoto gruppo di organismi primordiali comuni. La natura – “un sistema di materia in movimento guidato da precise leggi, che può essere spiegato con il ragionamento, senza ricorrere a entità sovrannaturali”[1] – ha dunque una storia, un’evoluzione che è tuttora in corso.
Questo processo di relativizzazione è stato enfatizzato da discipline come la genetica. Ogni individuo, a qualunque specie appartenga, è unico ma è un po’ come se fosse pervaso dalla materia e dai processi di cui sono fatti tutti gli altri. “Molte scoperte hanno messo in luce l’incredibile unitarietà degli esseri viventi. I processi fondamentali e i meccanismi che li controllano sono essenzialmente gli stessi in tutte le specie. Si è scoperto, per esempio, che per fare uno storione, un ranocchio, un topo o un uomo è richiesta l’azione programmata e coordinata di un certo numero di geni dello sviluppo che gli animali di tutte queste specie hanno in comune e che sono anche nel patrimonio genetico di insetti e molluschi.”[2] Nei nostri geni sono presenti i geni di molte altre specie, persino dei virus, organismi alla base della vita che possono essere considerati come dei veri e propri “impollinatori dell’evoluzione”. Le difficoltà in ambito scientifico sulle metodologie in base alle quali determinare le differenze tra le specie e le discussioni sul concetto di specie sottolineano questa unitarietà.
[Questa unitarietà/relativizzazione è comprovata, in maniera ben più universale, anche al livello elementare della materia. Recenti ricerche sulla materia di cui è costituito l’universo hanno mostrato che “fino a metà dei barioni attualmente contenuti nelle galassie dell’universo locale è transitata nel mezzo intergalattico almeno una volta, e spesso numerose volte. I barioni che compongono il nostro organismo partecipano a questo ciclo da quasi 14 miliardi di anni; la materia di una delle nostre unghie potrebbe essersi formata all’interno di stelle di altre galassie e aver trascorso miliardi di anni di esilio nello spazio intergalattico prima di raggiungere il sistema solare. Siamo solo una fase effimera, un ospite temporaneo, per questa materia rara che definiamo ‘normale’.”[3]
Sostenibilità ed ecologia
Negli ultimi quattro decenni anche il lessico comune è stato permeato dalle problematiche ambientaliste. Tra i termini più noti quello di “sostenibilità”, derivato dall’ecologia, che nell’accezione di “sviluppo sostenibile” è stato introdotto dal Rapporto Brundtland[4], rilasciato nel 1987 dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo. Dare una definizione assoluta di “sostenibilità” è impresa ardua, poiché si tratta di un termine ombrello con significati afferenti a campi diversi, talvolta contraddittori. Nel Rapporto Brundtland si definisce come “sviluppo sostenibile” uno sviluppo “che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. Al di là dell’evidente limite antropocentrico di questa definizione, lo “sviluppo sostenibile” contiene due elementi discutibili. Il primo è l’idea di natura come elemento funzionale e soggetto alle attività umane: una natura addomesticata e inoffensiva, prevedibile e controllabile, “buona” e “bella”, edulcorata e imbellettata, che non deve uscire dall’angolo in cui la nostra cultura l’ha relegata: quella sorta di Arcadia contemporanea, veicolata dai media, che considera il “naturale” come un must per vendere della merce senza interrogarsi sul suo reale significato. Ma questa natura ottusamente antropocentrica è in gran parte falsa: la natura è invece spesso incontrollabile, intrattabile, inconciliabile, irriducibile… Certamente, noi non possiamo che essere antropocentrici, perché non possiamo che avere uno sguardo umano verso il mondo. Come varie discipline, tra cui in particolare la biologia della conoscenza[5], hanno mostrato dagli anni ’80 del Novecento, la nostra mente è quello che è perché è “incorporata” in questo corpo, da cui non può essere separata. Il nostro corpo è dunque l’unica prospettiva che, di fatto, ci è concessa, l’orizzonte degli eventi dello sguardo umano. Tuttavia ciò non dovrebbe impedire di riconoscere il diverso, inteso come specie e come ambiente, ma anche, più in generale, come alterità, e di confrontarsi con esso in una sorta di contratto naturale[6] che non tenga conto soltanto, o soprattutto, dell’interesse umano.
L’ambientalismo persegue un habitat adatto a conservare la vita, certamente, ma in realtà a ben guardare persegue un ambiente adatto soprattutto alla sopravvivenza umana, e così la critica all’antropocentrismo finisce col far rientrare dalla finestra quel che è appena stato fatto uscire, vigorosamente, dalla porta. In questa chiave andrebbe rivista anche l’implicita e ricorrente opposizione tra “umano” e “naturale”, come se l’umanità non fosse “natura” allo stesso titolo di qualsiasi altra specie animale o vegetale. Di fatto, dunque, ciò che almeno dal Paleolitico sta avvenendo è che una parte della natura, e non qualcosa di esterno, sta intervenendo dall’interno in maniera sempre più evidente sui meccanismi della natura stessa e ne sta utilizzando le risorse in modo crescente e incontrollato, lasciando un’impronta rilevante sul Pianeta. Le tecnologie sono uno strumento, del tutto naturale, di cui l’umanità si è dotata, anche per estendere le proprie capacità, in un processo di accrescimento e di accelerazione iniziato nel Paleolitico che di fatto ha contrastato e orientato la portata, per esempio, della selezione naturale per quanto riguarda la nostra specie. Per limitare le conseguenze di quell’impatto o per ripararne i guasti, in futuro non ci vorranno meno tecnologie, ma, al contrario, ce ne vorranno di più.
Forse un punto di vista più generale potrebbe tornare utile, anche se meno popolare: secondo la teoria di Gaia, di James Lovelock, la Terra sarebbe un unico organismo vivente, capace di autoregolarsi e di rispondere a tutto ciò che ne turba l’equilibrio[7]. Per un tale sistema la presenza umana non sarebbe affatto determinante, né necessaria. E, per chiudere la parabola relativistica aperta all’inizio, uno studio comparso qualche anno fa ha ipotizzato una possibile evoluzione dell’ambiente dopo la scomparsa della specie umana dalla faccia della Terra[8].
(part II)
Sostenibilità ed economia
Il secondo aspetto problematico dello “sviluppo sostenibile” del Rapporto Brundtland riguarda la dimensione economica. Implicita nella locuzione c’è infatti l’idea di “sviluppo” inteso soprattutto come crescita economica. Cioè, in fondo, l’idea che la parabola della cultura e dell’economia umana sia destinata a crescere continuamente, pur nell’ottimizzazione dei processi di sfruttamento e delle risorse disponibili. Ciò che sembra sfuggire a questa impostazione è sia la dimensione globale, nel senso che le risorse planetarie non sono infinite e dunque uno “sviluppo sostenibile” potrebbe non essere un mantra eterno né assoluto, sia la dimensione, per così dire, regionale, nel senso che, come oggi è particolarmente evidente, non tutte le economie mondiali possono seguire la stessa traiettoria. Non è affatto scontato, come invece si cerca di far credere, che dopo l’attuale crisi economica di parte dell’Occidente vi sarà una ripresa e un nuovo sviluppo, che tutto insomma tornerà come prima a crescere. Potrebbe anche darsi di trovarsi di fronte a un mutamento di paradigma, secondo il quale la nostra cultura segnerebbe il passo a favore di altre culture ed economie. Discettare di “sviluppo sostenibile”, di “crescita sostenibile” o di “economia sostenibile” in tempi di crisi economica, di recessione e di sopravvivenza, potrebbe apparire come un mero esercizio di stile.
È la dimensione quantitativa che entra in crisi, l’idea di abbondanza, di accumulazione (delle risorse, delle ricchezze, delle finanze, dei beni materiali…), l’illusione della crescita continua ma anche l’ingenua credenza che tutti ne possano trarre beneficio. Per molte economie occidentali la quantità non è più sufficiente neppure a livello produttivo, dato che non è più possibile reggere l’impatto di economie della quantità basate sui due terzi della popolazione mondiale. Nel nostro piccolo mondo l’economia della quantità sembra stia lasciando il posto a un’economia della qualità, più complessa, articolata, globale ma fondata sulla località, specializzata, non basata sull’accumulazione della ricchezza materiale, sull’impersonalità del denaro e sulla rapacità della finanza ma soprattutto sulle persone e sulle loro reali capacità, sulle scelte responsabili e a lungo termine, sulla reciprocità, sulla disponibilità a condividere la conoscenza. In questa dimensione diviene fondamentale immaginarsi e sapersi declinare al futuro, favorire una progettualità più consapevole, globale e insieme locale, generale e contingente, colta e collaborativa, attenta all’alterità, alla diversità, alle differenze. Riscoprire, saper riconoscere e valorizzare la differenza, da sempre costituisce un valore: il motore del mondo non è l’“uguale” ma il “diverso”, la differenza: nell’informazione, nella cultura, nella biologia, nella genetica, nella creatività, nella sessualità… E nell’arte, come scarto dalla norma.
Art can save us (probably)
Sostenibilità significa anche copiare la natura e le sue dinamiche. Il vivente è stato ed è il modello della rappresentazione e dell’arte, ma è anche il modello di un numero crescente di artefatti, macchine e dispositivi sempre più complessi che devono adattarsi ai contesti, superare le difficoltà dell’ambiente in cui operano, interagire con le novità e gli imprevisti, sopravvivere a danni, errori o difetti, difendersi dalle aggressioni… Il vivente è il miglior modello di questi artefatti perché ha un’“esperienza” del mondo – cioè possiede un sapere, una conoscenza – maturata in circa 4 miliardi di anni di evoluzione, perché da quando esiste ha dovuto misurarsi con il mondo fenomenico.
La mostra di Anja Puntari e dei suoi collaboratori si pone in maniera ambiziosa in un presente storico difficile dal punto di vista economico, ecologico, culturale: “l’arte può salvarci”. Di fatto, il rifiuto degli schemi, il pensiero altro, il percorso divergente, la riflessione alternativa, la soluzione inusuale, l’atteggiamento sincretico, la leggerezza dirompente, la relatività della dimensione economica, la libertà e l’indipendenza, l’attenzione per il nuovo… e molto altro sono sempre stati nei geni del fare arte. L’arte può riuscire dove altre discipline falliscono: fenomeni come la turbolenta caoticità delle interazioni umane, le dinamiche dei mercati, i processi di comunicazione globale, il sincretismo delle culture, ma anche le teorie della fisica, le matematiche del caos, la complessità di molti fenomeni naturali, legati all’ecologia, appaiono vicini alle dinamiche e alle processualità artistiche. Oggi è difficile riuscire a comprendere e a descrivere la complessità del mondo senza attivare atteggiamenti e approcci artistici. L’arte appare come una sorta di filosofia della contemporaneità, una risorsa determinante per capire il presente e guardare al futuro.
“Art can save us (probably)” mette insieme arte, gioco, passione, visione, gratuità, leggerezza, Open Source, potlach… e dimostra anche le qualità della collaborazione, le problematiche e le potenzialità dell’autorialità nella fruizione, i vantaggi della condivisione, la forza della compartecipazione per il raggiungimento di obiettivi comuni. In una celebre affermazione sulla relazione tra arte e scienza Roy Ascott sosteneva che oggi “non bisogna chiedersi quello che la scienza può fare per l’arte, ma quello che l’arte può fare per la scienza”[9]. Analogamente “Art can save us (probably)” vuole rovesciare la tradizionale relazione dell’arte con l’economia: oggi non bisogna chiedersi quello che l’economia può fare per l’arte, ma quello che l’arte può fare per l’economia, per l’ecologia. E anche questo è un pensiero “altro”, divergente, libero, dirompente. Un pensiero artistico.
Pier Luigi Capucci
PART I D’ARS year 52/nr 211/autumn 2012
PART II D’ARS year 52/nr 212/winter 2012
[1] Francisco J. Ayala, cit. in Gary Stix, “L’eredità di Darwin”, Le Scienze, n. 486, febbraio 2009, p. 40.
[2] Edoardo Boncinelli, “La genetica dell’evoluzione”, Le Scienze, cit, p. 50.
[3] James E. Geach, “Le galassie perdute”, Le Scienze, n. 515, luglio 2011, p. 49. Nella fisica delle particelle i barioni sono una famiglia di particelle. I barioni più conosciuti sono i protoni e i neutroni, che costituiscono la maggior parte della massa della materia visibile dell’universo.
[4] Il rapporto è scaricabile a partire da questa pagina; http://tinyurl.com/ce9sm6f
[5] Si veda in particolare Humberto Maturana, Francisco J. Varela, L’albero della conoscenza, Milano, Garzanti, 1987.
[6] Michel Serres, Il contratto naturale, Milano, Feltrinelli, 1991.
[7] James Lovelock, Gaia. A New Look at Life on Earth, Oxford, Oxford University Press, 1979 (trad. it. in Gaia, Torino, Bollati Boringhieri, 2011),
[8] Alan Weisman, “Una Terra senza umani”, Le Scienze, vol. 469, 2007, pp. 50-55.
[9] Intervento alla conferenza “The Spirit of Discovery: Art, Science and New Technology”, Transcoso, Portogallo, 18-20 maggio 2006. Le slides dell’intervento: http://www.risco.pt/WordPress-pdf/Ascott.Trancoso2006.pdf.