L’ultima fatica di Antony Gormley s’intitola Horizon Field. E non è tanto per dire. L’artista inglese e la Kunsthaus Bregenz ci hanno messo la bellezza di cinque anni per progettarla e allestirla. Meno era impensabile per sistemare cento sculture da 600 kg l’una su un’area di 150 km2 tra le Alpi del Vorarlberg, Austria occidentale. Con l’aiuto dell’esercito e dei mezzi del soccorso alpino, le figure sono state pazientemente disseminate in gruppi disomogenei e a distanze variabili (da sessanta metri a qualche chilometro), ma tutte alla stessa altitudine di 2039 m, centimetro più, centimetro meno. Alcune sono raggiungibili a piedi, d’estate, e con gli sci, d’inverno; altre sono impossibili da affiancare, ma comunque accessibili alla vista. E lo saranno fino ad aprile 2012 (sono lì da agosto 2010), quando militi e montanari dovranno nuovamente rimboccarsi le maniche per rimuovere il tutto.
Horizon Field è l’ennesima variante di un progetto che Gormley porta avanti dal 1997, quando per la prima volta installò cento sculture in riva al Mare del Nord a Cuxhaven, in Germania. Another Place, questo era il titolo allora, si sarebbe spostata l’anno successivo sulle spiagge della Norvegia e nel 2003 in Belgio, per terminare quindi il suo viaggio nel 2005 a Crosby Beach, vicino Liverpool, dove oggi è permanente. Una nuova serie di cento pezzi, Time Horizon, è stata realizzata nel 2006 per la seconda edizione di Intersezioni, presso il Parco Archeologico di Scolacium, in provincia di Catanzaro1 , mentre trentuno iron men hanno calcato i tetti di Londra, Rotterdam e New York tra 2007 e 2010 per Event Horizon2 .
Da una parte all’altra del globo, le reazioni del pubblico vanno dall’apprensione alla goliardia. A Londra molti hanno chiamato la polizia per denunciare la presenza di potenziali suicidi sui terrazzi del centro, mentre il Web pullula di foto amatoriali degli uomini di ferro agghindati con t-shirt e cappellini, come fossero dei giganteschi Big Jim. La stessa Kunsthaus Bregenz ha aperto una pagina Facebook dove caricare le proprie istantanee e anche qui si vede di tutto: un bambino issato sulle spalle di una scultura; un’altra gustosamente leccata da una mucca; una terza avvolta in un mantello rosso Superman. Persone e animali non sembrano percepire le sculture di Gormley allo stesso modo del David di Michelangelo o dello Zuccone di Donatello. A quelli nessuno cercherebbe di sistemare un paio di occhiali da sole sul naso, non solo per le ovvie conseguenze penali, ma prima di tutto perché vengono riconosciuti come manufatti sacri, da guardare e non toccare. Qui il discorso è diverso. Non siamo davanti al ritratto idealizzato di un re o di un profeta, ma ad una raffigurazione antieroica dell’uomo comune. Non c’è nessun intento estetico, celebrativo o simbolico. L’attenzione è sì al corpo e all’uomo, ma l’antropocentrismo di Gormley non è più quello rinascimentale. Se cinquecento anni fa l’homo era al centro di un universo misurabile, orgoglioso delle sue facoltà intellettive, nel Vorarlberg è disorientato e comincia a chiedersi dove queste lo abbiano condotto. Sotto di lui osserva uno spicchio di natura selvaggia, ma anche un territorio stressato dal progresso, dove cervi e camosci convivono con seggiovie e skilift. L’antropocentrismo di Gormley è decisamente più romantico, che umanista. L’uomo non è più misura di tutte le cose, ma solo di se stesso. Sullo sfondo dei pascoli alpini, gli uomini di metallo appaiono simili ai personaggi dei dipinti di Caspar David Friedrich: persone comuni davanti al misterioso spettacolo della natura. La fulminea empatia che si prova nei confronti degli iron men è garantita dalla loro essenzialità formale. Tutte le figure sono realizzate a partire da un calco in gesso del corpo del loro autore, ma uscite dalla fonderia i tratti fisiognomici del modello sono scomparsi, lasciando una forma universale con la quale chiunque può facilmente identificarsi. “Il corpo per me è importante quanto l’astrazione all’inizio del XX secolo. Il mio è un tentativo di trovare un veicolo di esperienza comune. Perché usare il corpo? Perché tutti ne abbiamo uno”.
In piedi sulla cattedra davanti ai suoi allievi, il professor John Keating una volta ha detto: “Perché sono salito quassù? Chi indovina? Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi! Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa, che dovete guardarla da un’altra prospettiva”3 . Ecco: prospettiva. Nelle sue installazioni, il professor Gormley ci invita a salire su una piattaforma per nulla dissimile, se non nelle dimensioni, al piano della scrivania del suo collega. Un osservatorio da cui provare un punto di vista insolito sul mondo, per riflettere su chi siamo, da dove arriviamo e che direzione vogliamo prendere. Personalmente e come genere umano. Certo, per salire su un tavolo basta una sedia a mo’ di gradino; conquistare il terrazzo di un grattacielo o la cima di una montagna è tutt’altra faccenda. Nelle installazioni di Gormley, il cambiamento di prospettiva si sperimenta, per così dire, per delega. Le sculture sono lassù come nostri rappresentanti, cento segnaposto antropomorfi di ghisa.
Uomo, corpo, prospettiva. Ai tempi di Donatello e Michelangelo era di moda anche un’altra parola: statua. Oggi, spesso e volentieri, viene usata male, come fosse un semplice sinonimo di scultura, dimenticandosi della sua intrinseca anima sociale e pubblica. Forse con Gormley possiamo finalmente tornare a pronunciare questo nobile termine, aggiornandolo al XXI secolo. Mettendo sul piedistallo non più una copia idealizzata dell’uomo, bensì l’essere umano in tutta la sua splendida insicurezza. Restiamo in attesa di una serie di cento iron women.
Stefano Ferrari