Tra i maggiori artisti della scena contemporanea, Anish Kapoor torna finalmente ad esporre in un museo italiano: al MACRO di Roma opere inedite che inaugurano uno stile cruento, dove la materia rivela lo stretto legame con l’intimità della vita.
Anish Kapoor, lo scultore attratto dal vuoto, dal profondo, dal silenzio e dall’invisibile – che talvolta spaventa e talaltra incuriosisce – elabora la sua poetica con metafore scultoree e pigmenti che rendono il vuoto percepibile e zeppo di significati. Di Kapoor conosciamo gli specchi (concavi o convessi) e le grandi sculture, le curve, i colori e le sfaccettature: il supporto varia, i colori virano e il metallo della base perde la sua consistenza. Lo spettatore, interagendo con la sostanza che gli si pone di fronte, gioca con la disambiguazione e trascura la propria identità che viene moltiplicata, dialogando all’infinito con lo spazio circostante. Il cambiamento spaziale indotto dalla materia (specchiante o monocromatica) deve provocare dislocazione temporale e mentale, inducendo riflessioni multiple.
Milano aveva onorato nel 2011 l’artista indo-inglese con ben due personali. Alla Fabbrica del Vapore una grande cornucopia in ferro (Dirty Corner) accoglieva i visitatori dentro la cavità, nera, anzi nerissima, a richiamare l’ignoto e altri significati molto intimi. Alla Rotonda della Besana, invece, lo spazio intriso dall’odore di cera colata, frastornava gli spettatori con giochi di frammenti specchianti e deformanti, e la percezione visiva del rosso purpureo (il rosso Kapoor) della cera – rimescolata nel grande macinino al centro della sala – catalizzava gli sguardi e acutizzava sensazioni poco gradevoli, rimandando a qualcosa di viscerale, in un vortice meccanico di creazione e di distruzione.
Ora tocca a Roma, dove lo scorso 17 dicembre è stata inaugurata al MACRO – Museo d’arte contemporanea, una personale, curata da Marco Codognato e interamente dedicata all’artista: le sale del piano terra sono occupate da trenta opere di cui ben venticinque inedite, che inaugurano un genere cruento.
Dopo gli enormi specchi deformanti, blu, rossi o neri (è suo il Vantablack S-VIS, brevettato dopo anni di studi, la sostanza più scura conosciuta, composta da nanotubi di carbonio), che giocano con il supporto e il corpo del visitatore, l’artista si esprime ora con nuove tecniche e sostanze, garbugli di colore misto a silicone che spalmano e fanno esplodere la materia, mentre mostrano la gestualità irruente che l’ha originata. Le tele esposte, sapientemente mosse dall’agglomerato di pigmenti, acquisiscono la stessa fisicità delle enormi sculture (Sectional Body preparing for monadic singularity, 2015 e Gethsemani, 2013). La decifrazione del lavoro va evocata in chiave metaforica: il rosso cita il sangue e la raffigurazione plastica rimanda a visceri e cavità umane.
Il peculiare rosso di Anish Kapoor viene declinato e enfatizzato in tutte le sue proposizioni, impastato con elementi siliconici e sbattuto sulla iuta, ove si ingarbuglia, e si districa, tra meandri inquietanti e tecnicamente perfetti: il richiamo è alla carne, ai tendini e agli organi, al fallo e alla vagina, alla nascita e alla morte, all’ordine e al disordine, alla solitudine e anche alla preghiera.
Il percorso si snoda tra grandi tele-scultura e sculture giganti, ma la lettura metaforica non ha inflessioni: ciò che predomina è sempre il sangue, anche nel grande specchio concavo (Black to red, 2016). Unica eccezione il “corner”, stavolta rivisitato in vetroresina color oro (Corner disappearing into itself, 2015) e spiaccicato sulle pareti ad angolo a invocare l’origine (e la fine) del mondo. Opere cariche di sensualità: gli impasti diventano ingombranti e richiamano il mistero della vita (Unborn, 2016; First milk, 2015; Foetal, 2012), l’universo corporeo (Flayed, 2016; Flayed II, 2016; Internal object in three parts, 2013-2015; Inner stuff, 2012) e quello mistico (Robe, 2012).
La riflessione richiesta è profonda: la materia si aggroviglia, si svela e sanguina, tra meandri nodosi e tendinei; la fisicità che si mostra ti risucchia nel profondo delle viscere: nessuna provocazione, ma una maestosa interiorizzazione che celebra l’ignoto nella transitorietà.
Dalla de-materializzazione dell’opera siamo tornati alla materializzazione: un inno alla vita organica che metaforicamente rimanda all’essenza dell’essere vivente e al suo inconscio.
Cristina Zappa
Anish Kapoor
A cura di Mario Codognato
MACRO – Museo d’arte Contemporanea Roma | Via Nizza 138
Fino al 17 aprile 2017