La rivista nel 2022 è stata trasformata in archivio di contenuti.

Animarsi a corti. XXVII edizione Premio Oscar Signorini

Il 2010 ha voluto dedicare il premio che dal 1984 la Fondazione D’Ars Oscar Signorini onlus promuove per i giovani talenti delle più varie e avanguardistiche ricerche artistiche, al cortometraggio d’animazione tradizionale. L’incontro con Simone Massi, autore di cinema d’animazione, la scorsa primavera, ha fatto scaturire in noi un interesse verso quello che poteva essere il panorama delle più recenti creazioni animate che non utilizzino esclusivamente le tecnologie digitali, per coglierne il soffio, i segreti, lo spessore… E’ dunque con emozionata conferma che cercherò di presentare a parole quello che Joseph Feltus (primo classificato), Giovanni Munari e Dalila Rovazzani (secondi classificati), Virginia Mori (terza classificata), regalano così splendidamente a immagini con le loro opere. Come la giuria composta dallo stesso Massi, Roberto Della Torre, Julia Gromskaya, Laura Fiori, Cristina Trivellin, ha potuto constatare, si tratta di tre esempi di cinema estremamente diversi l’uno dall’altro, i cui comun denominatori risultano la qualità artistica e l’artigianalità, chi più chi meno, della loro natura…

Joseph Feltus, Solo duets
Joseph Feltus, Solo duets, 2005

Si apre dunque il sipario di Solo duets di JosephFeltus, incredibile teatro in miniatura del dramma di Rainer, protagonista della narrazione, il quale vive a partire dallo specchio, un dialogo malinconico col suo doppio giovane. Lirico, lontano, sofferto, il confronto tra un uomo ormai anziano e il ricordo della sua giovinezza passa sulle note di Satie, su quel pianoforte che improvvisamente viene suonato a quattro mani. Lì, in quello spazio di tempo in cui la penombra e squarci di un giallo caldo accolgono una silenziosa pagina di solitudine, l’essere in due, Rainer e un se stesso ancora puro, non solcato dai terrori del tempo, alimenta la suggestione di qualcosa che non procede, ma va all’indietro. Uno sdoppiarsi che nell’allargarsi si blocca. La lentezza dei movimenti, l’appoggiarsi l’uno all’altro con gli occhi bendati, fa incedere i due verso un baratro che seppellisce o forse custodisce… Il corto è realizzato e animato in scala 1:6 nei minimi dettagli da mani abili e raffinate nel costruire marionette di cera, mobili, quadri a parete, libri, manoscritti, una macchina da scrivere, un pianoforte, arredo degli interni della casa del protagonista, così come vicoli, ciottoli, manifesti di strada per i desertici esterni dell’angosciosa e intima sceneggiatura.

Giovanni Munari, Daila Rovazzani, Arithmétique, 2010
Giovanni Munari, Daila Rovazzani, Arithmétique, 2010

Il ritmo cambia in Arithmétique, cortometraggio di Giovanni Munari e Dalila Rovazzani (da cui la copertina di questo numero di D’ARS), ispirato all’opera L’enfant et les sortilèges di Ravel e Colette. Siamo sul limite fra reale e immaginale, sulla linea che divide, finchè può, i rumori domestici dalle grida di un mondo sconosciuto, chiassoso, impertinente, che balza fuori dalle pagine di un libro. Un bimbo obbligato a fare i compiti di aritmetica, in un pomeriggio come un altro, dal regolare ticchettio delle lancette dell’orologio, dal rumore del focolare e dalle fusa sornione di un gatto di casa, è catapultato in un battibaleno nel regno del numero, del calcolo, di ossute e squadrate geometrie. Custode del regno è un vecchio personaggio dal corpo nero come l’ombra e una barba infinitamente lunga in cui rimanere intrappolati. Incagliato nella supposta saggezza di questo tritone dai movimenti sinuosi e burrascosi allo stesso tempo, resta infatti il nostro piccolo protagonista, preda terrorizzata di labirinti dagli angoli pungenti così fastidiosamente perfetti in cui non sembra esserci spazio per le interpretazioni. La matematica non lascia dubbi, è esattezza di risultati, quelli pretesi dalla più fantasiosa ed evasiva mente del bambino, incarnati in un incubo che lo travolge in un mondo che taglia, divide, nomina. Non a caso il barbuto caronte ha in mano le emblematiche forbici del dovere, del distacco, ma anche quelle che hanno permesso all’energico personaggio di emergere, stagliarsi nel tranquillo quotidiano del giovane studente, attraverso la tecnica illustrativa dei cutouts drawings utilizzata dagli autori, disegni che ritagliati si sovrappongono al fondo delle altre immagini. Estremamente interessante il bivalente e ambiguo duello tra purezza e magia addormentata da una parte e tagliente ma immaginifico e creativo “imperativo” dall’altra. Ma ecco affiorare un altro incontro col proprio doppio ne Il gioco del silenzio di Virginia Mori.

Virginia Mori, Il gioco del silenzio, 2009
Virginia Mori, Il gioco del silenzio, 2009

Come immergersi sott’acqua, metafora di Massi e Gromskaya per definire la dimensione sospesa e priva dei suoni di superficie di questo cortometraggio, il gioco cui si assiste è quello fra due donne, una giovane fanciulla vestita di bianco, e una dall’abito nero, di cui non si vede il volto, solo le mani chiuse nei pugni di chi vuole porre il quesito di dove e cosa si nasconda in una delle due. L’ombra si rivolge all’immagine visibile, il nero al bianco, la sfida oscura a ciò che sembra essere in luce. Senza parole inizia dunque il lento gioco alla nudità, allo svelamento, allo spogliarsi dai vestiti cuciti coi dogmi delle restrizioni sociali, culturali, individuali, che piano piano saltano come chiodi dall’abito della fanciulla. La ragazza, non trovando nulla in entrambe le mani della figura in nero, sembra continuare a perdere. Come un animale che si ritira nel proprio guscio scivolando morbidamente all’interno delle proprie forme, la giovane protagonista del film si specchia in silenzio con un probabile alter ego, che la invita a rinascere scomparendo o a morire, finalmente, vivendo.

Tre incontri, tre soglie. I cortometraggi d’animazione vincitori dell’ultimo Premio Oscar Signorini sembrano suggerire drammaticamente, giocosamente o in punta di piedi, l’inevitabile e magico appuntamento con l’altro da noi, quello che ci sconvolge, ci terrorizza, ci azzera, ma che ci abita dentro. L’io giovane ormai perduto; quello vecchio che legifera e giudica; il coetaneo cui, se solo dessimo modo di essere, potrebbe forse alleviare lo scontro coi primi due, accogliendone l’avvento con una sana, liberatoria e irriverente strizzata d’occhio!

Viola Lilith Russi

D’ARS year 51/nr 205/spring 2011

share

Related posts